24 giugno 2021

Simbiosi.

 Io ti sento. Provo il tuo dolore. Lo faccio mio ed è come se fosse capitato a me. 

Come posso aiutarti? Oggi ribalterei il mondo nel senso della giustizia. Non quella delle leggi o delle regole ma della rettitudine che premia gli onesti, le persone capaci, le competenze, chi ha faticato e portato valore; la giustizia che premia l'impegno e anche i buoni. Sì, i buoni. Ma siamo ancora capaci di dare valore al bene e a chi comprende intimamente cos'è il bene privilegiandolo all'utile? 

Oggi ti solleverei dal mondo e dalle sue pene. 

Se potessi trovare il modo per rendere più lieve questa sofferenza che è, prima di tutto, uno spaesamento inerme di fronte a un mondo malato e prevaricante. Un universo malato e tossico, infestato da erba cattiva che va divelta perché invade la terra buona e non permette che lì vi cresca altra vita.

Sopporta, amore e fai in modo che questo male non ti entri nelle viscere. Non permettere loro di farti questo.

24 maggio 2021

zac.

E mi sono tagliata i capelli. Abbastanza da cambiare senza snaturarmi. 

L'ho deciso guardando l'ultima foto che mi è stata scattata, per ragioni di lavoro, da una professionista. La stessa che quasi un anno fa aveva colto di me tutto, anche il più profondo sentimento mal celato dall'espressione di un viso che guardava lontano seppure corrugato al telefono. 

Nella seconda immagine di pochi giorni fa ho rivisto una me stessa diversa. E non mi sono riconosciuta. Ho iniziato a odiare il mio collo. Poi mi sono chiesta quali luci la fotografa avesse attivato per modificare il colore dei  capelli che sembravano quasi biondi e io, invece, mi vedo scura. Poi ho visto la malinconia negli occhi, forse era anche tristezza. E mi sono vista vecchia. Anzi, invecchiata che è diverso. 

Sono in un nuovo frullatore emotivo. Non l'ho cercato io. Me l'hanno imposto.

Potevo far sì che non andasse così dentro le viscere, che non affondasse troppo ma l'ho permesso e il perché è da ricercarsi in un disperato bisogno di aiuto o un appiglio. In questo miscuglio di emozioni che dirompono impetuosamente in lacrime, oramai anche davanti al video, mi sto sforzando di essere autentica e di non farmi di nuovo del male. Svelarsi e contemporaneamente guardarsi bene dentro, comporta opportunità e rischi. Rischi anche di instabilità che rifuggo per sopravvivenza e perché mi costa fatica fisica oltre che mentale. Nell'ultimo mese, me ne sono accorta ieri, ho perso 2 preziosi chili.

Perché dunque io oggi sia di nuovo arrivata a questo punto è la combinazione non casuale di una serie di eventi che ho scelto di non fermare ma di vivere alla mia maniera. Di nuovo, ancora, per l'ennesima volta, fino in fondo.

Non so domani cosa porterà tutto questo. 

Nella prima foto ero vestita di fucsia e volevo gridare al mondo che non ero invisibile. Cercavo attenzione. E mi sono puntata un faro addosso da sola. Era pura estetica: un maquillage tranquillizzante e di sicurezza.

Nella seconda foto ero mesta, chiusa, infelice. Insignificante e spaesata. Vestita di nero, comune, senza un senso. Non gridavo nulla, neanche in silenzio a bocca chiusa. Per quello ho dovuto darmi una scossa.

Iniziamo, dunque, dai capelli. Chissà che sia solo l'inizio di una nuova metamorfosi, non per cambiare ma per essere davvero me stessa. Magari, felice. 


4 maggio 2021

E così mi sono frantumata come un vetro che cade e va in pezzi. 

Incapace di raccogliere i cocci ovvero di comprendere se è meglio cestinare tutto o provare a ricomporre, sapendo che le crepe saranno sempre visibili, mi limito per ora ad osservare impietrita quel disastro lì per terra. 

7 marzo 2021

Il salvataggio

Ieri, 6 marzo 2021, ho celebrato i miei personali 365 giorni a casa. Chiusa in un appartamento del terzo piano, per fortuna con vista sulle colline e un sentiero dietro casa da intraprendere nei momenti di stress per una sana boccata d'aria. Sì, aria. Ho bisogno di aria vera, sulla faccia. Ho bisogno di respirare. 

A distanza di un anno mi accorgo di come il Covid abbia influenzato la mia vita. Mi sono rinchiusa in casa dopo che un decreto mi ha imposto prima di non varcare la soglia, poi di centellinare le uscite, quindi di stare attenta e prendere tutte le precauzioni del caso. In un anno sono passata dal: "non si trovano più le mascherine" a una collezione di tutti i tipi, acquistate anche banalmente agli scaffali del supermercato: nere, grigie, di stoffa, alla moda. Ne abbiamo messe di tutti i colori e di tutte le forme, per capire dopo 365 giorni che forse è il caso di indossarne due; per essere davvero protetti, la regola di base è che devi far fatica a respirare. Siamo passati dai guanti usa e getta, quasi introvabili, agli igienizzanti perpetui che hanno irrigidito ogni pelle dei polpastrelli. Sono rimaste le code fuori dai supermercati, i semafori rossi e i negozi vuoti. D'altronde, non so voi, ma da quando il mio abito quotidiano è la tuta (ovvero il pigiama o degli oramai lisi leggings) non compro più nulla, neanche in internet. Rimettere i tacchi cinque giorni fa mi ha procurato pure il mal di schiena, tanto vi sono disabituata. Ho scordato cosa sia un rossetto, un paio di orecchini e pure il reggiseno. Ma non è solo questo il mio bilancio, a un anno di isolamento. 

Mi mancano due cose: viaggiare e abbracciare le persone. 

Il mio essere veneta non mi ha mai reso il contatto una dinamica favorevole, ma quelle poche persone che avevo voglia di sentire davvero nel loro palpitare quando ti avvicini per odorarne il profumo, mi mancano. Mi manca andare alla scoperta del mondo e delle sue genti e culture. Assaporare il diverso, il lontano. Mi manca conoscere. Mi sto impoverendo, questa è la vera grande eredità del covid che ha reso tecnologico e digitale tutto, ma la tecnologia ci impoverisce. Ho scoperto che il pensiero e quelle poche idee che ancora partorisco nascono quando spengo il video e il cellulare. Quando cammino e mi immergo nel verde, nei colli. Quando respiro.  

Il lavoro ci sta usurando rendendoci più efficienti e costantemente reperibili e operativi. E' vero: sono più efficace di prima, faccio il triplo delle cose. Lo smartworking l'avevo già provato in tempi non sospetti e quando non si chiamava cosi. Lavoravo da casa perché ero precaria, collaboratrice, esterna. Ho fatto la giornalista per anni fuori dalle redazioni che ora sarebbero il mio ufficio. Il luogo dove scrivevo ogni articolo (a volte pure in Autogrill) non influenzava la qualità del lavoro perché non era legato alla redazione in sé ma al mio contatto con il mondo là fuori che raccontavo. Prendevo l'auto e andavo a vedere a sentire con i miei occhi. Ci parlavo davvero con le persone e nella scrittura non emergeva solo ciò che mi dicevano ma l'atmosfera, l'ambiente, i loro occhi, il loro sentimento da me percepito. Il video ci ha tolto tutto questo. L'ha reso arido. Fateci caso: quando non volete far trasparire una vostra emozione o stato d'animo, durante la videocall vi oscurate e spegnete la telecamera. Con la voce il linguaggio non verbale tace. 

E così ci siamo nascosti dal mondo. E io mi sono rifugiata in questo castello. Inizialmente mi ci hanno rinchiuso e ci stavo anche bene. Il pendolarismo disumano mi aveva consumato dentro come la cinghia della mia auto alla terza revisione in un anno e mezzo. Poi è arrivata la paura, quindi la disabitudine, infine la sconsolata evidenza che anche se andavo in ufficio cambiavo solo luogo ma non la modalità: perché ero lì, nelle stanze dell'azienda, ero sempre di fronte ad un video. L'unica differenza era il mio stile, l'abito e una brezza di normalità apparente. 

Non so come uscirò da questo castello. Se qualcuno prima o poi sventolerà un mazzo di fiori e mi farà scendere dalla scala di sicurezza. Da bimbe abbiamo sempre immaginato che, anche a noi, potessero toccare in sorte finali romantici e fiabeschi alla Pretty Woman. Purtroppo da questo appartamento dovrò uscire da sola e dalla scala principale, appena là fuori il mondo tornerà ad avere dei contorni di normalità. Facendomi forza e cercando di recuperare i sapori antichi delle vecchie abitudini analogiche che, spero, il digitale non ci abbia definitivamente privato. 

5 febbraio 2021

Vedere con gli occhi dei bambini

 L'anno scorso, era più o meno a metà di aprile, sorridevo quasi di gusto nel vedere mia nipote di appena due anni correre irrequieta tra le mura di casa urlando a squarciagola, fino a perdere il fiato: coronavirusss. Pensavo: chissà cosa le passa per la mente. E' una demonizzazione o puro divertimento? 

A casa dall'asilo, con tutti gli adulti attorno mascherati e igienizzati, la clausura obbligata, nessuna amica con cui giocare, uscire, parlare, scherzare... che altro doveva fare se non sfogarsi? 

Poi sono arrivate le video e infine le registrazioni vocali. "Ciao Marta, io vado a fare il bagnetto e tu?". File inviati dalle mamme ai rispettivi telefoni per far parlare le due nanette: amiche e compagne di classe, lontane da mesi. 

Non sono mamma ma non avevo mai realmente pensato agli effetti di questa pandemia su questi esserini finché non ho visto tutte e dieci le Barbie sul pavimento dell'entrata, posate e sedute a rigorosa distanza, che guardavano Ken in piedi. Erano a messa. Io, da piccola, mi inventavo giornate di shopping e lavoro per le mie bambole bionde della Mattel. Ma le mie nipoti non avevano altro che la domenica per uscire e respirare il mondo; e cosi è stato per mesi. La messa come unico momento comunitario e sociale da riprodurre nei giochi. 

E ora è il momento dell'ospedale. Con la maschera addosso curano orsacchiotti e bambolotti ammalati di coronavirus. Forse neanche sanno come disegnarlo questo mostro ma mi rendo conto, nelle immagini filmate che mi arrivano a distanza, di quanto potente sia l'impatto su questi frugoletti. Che vedono, assorbono e replicano, per imitazione, una società malata e sola, sempre più povera di stimoli dove la tecnologia poco e male compensa un ginocchio sbucciato per una spinta, un abbraccio dopo una lite a ricreazione, una corsa tra i coriandoli a Carnevale, una festa con venti scalmanati che ti distruggono casa e la vista dei sorrisi dietro le maschere degli adulti. 

Chissà cosa ricorderanno da grandi...

14 dicembre 2020

Una romantica malinconia in un universo sconquassato

Scrivere unisce due gioie, diceva Pavese, parlare da solo e parlare alla folla. Ed è così che ho sempre inteso l’arte liberatoria della parola scritta, quella che ho scelto (talvolta) di condividere con voi su questa pagina virtuale sperando di non annoiarvi e non appesantirvi con i miei moti d'animo ondosi. 

In questi giorni mi sono trovata spesso a riflettere sul senso di stanchezza. Mentale più che fisica. Ho ragionato sul passare dei giorni, sui limiti e sulle possibilità del nostro vivere odierno. Sul groviglio di emozioni che provo, talmente tante e in conflitto tra loro, da non riuscire a snodarsi e fluire consapevolmente né, qualche volta, a trovare una qualche espressione esteriore. Tristezza, rabbia, remissione, debolezza, impotenza, paura. Stanno cedendo anche i miei forti filtri razionali e me ne accorgo quando spengo gli schermi e vedo davvero me stessa. Senza ruoli, senza maschere, senza funzioni. 

Sono una delle tante persone che sta cercando un senso all’oggi e indaga sul domani. 

Si fa domande. Pensa. Sogna. Sperimenta. Cerca. 

Ho sempre sostenuto che la condizione emotiva dell’animo curioso e pensante, sia la malinconia. In passato lo chiamavano umor nero perché se esso prevaleva sugli altri umori del corpo, si sognavano cose paurose e tristi. Personalmente intendo la malinconia nel senso romantico del termine, come uno stato di inquietudine, ‘un intimo dispiacere per un desiderio non appagato’, il senso della noia, un ricordo che rende tristi. Non ho mai temuto la noia, se essa è un'occasione di riposo, e nel tempo ho imparato a gestire positivamente la tristezza, una condizione dell’animo che spesso mi permette di vivere più consapevolmente. La tristezza è come una giornata di pioggia, fa parte dell'ordine delle cose, sai che prima o poi arriverà e potrà durare una mezz'ora, una mezza giornata, due-tre giorni ma poi passa e torna il sole. 

Ma il tema che si presenta alle mie viscere oggi è un altro ed è la sensazione malinconica del mio/nostro nuovo essere in questo mondo e di come ci si possa ri-posizionare con un nuovo e prezioso significato in questo universo sconquassato. 

L'attesa di questo nuovo domani è più lunga del previsto ed è spossante. 

Se nel primo lockdown ci siamo dati una vera occasione di stop e riposo da un cortocircuito inceppato, ora siamo dentro una prova di resistenza umana ed emotiva alla costante ricerca di appigli per non perdere il senso del vivere che, tornando al concetto di malinconia, si nutre oggi di desideri non appagati (pensate al viaggiare nel mondo per esempio), di ricordi tristi (le persone care perse o lontane) e di noia (intere giornate a casa in regioni rosse, arancio o per decreto). Spogliati di tutto il superfluo che ora vediamo così evidentemente vacuo, spogliati dei vestiti eleganti, dei gioielli pesanti, della socialità effimera e riempi tempo ma anche delle buone relazioni e della scoperta del nuovo che può avvenire attraverso un viaggio all'estero, un incontro sul lavoro, una chiacchiera con uno sconosciuto su un treno, siamo rimasti “solo” noi e quello che siamo/valiamo dietro uno schermo in funzione di uno spazio casalingo che condividiamo con la nostra metà, i figli, una famiglia qualunque forma essa abbia. E' in questa intimità che sta la nostra vera forza oggi ma non possiamo chiuderla qui. E' una trincea calda e difensiva, la migliore a nostra disposizione ma il mondo vero resta fuori e, anche se soffre e ora ci è proibito, è lì che torneremo.

18 novembre 2020

Una piccola Gufetta mascherata

Eh sì, sono diventata una Pigiamina, anzi una Pigiamax.
La maschera ce l'ho e se c'è freddo, grazie al plaid, ho pure il mantello.
Lei si chiama Gufetta. 
Il nome mi sta simpatico, quindi ho deciso di ironizzarci su un po'.
Scruto, osservo, un po' invidio e un po' no, quelle donne che lavorano da casa ormai da mesi e si presentano ogni giorno in video con i capelli appena usciti dal tiraggio a spazzola della parrucchiera, le camicie bianche di seta che richiedono lavaggi a secco, unghie rosse perfette che pigiano le lettere nere delle tastiere e secondo me qualcuna, sotto la tavola da pranzo, la simil-scrivania di legno in sala con una bellissima libreria Ikea alle spalle, ha pure i tacchi a spillo. 
Io a casa mia cerco la libertà e il comfort. 
A volte immagino la faccia delle persone davanti a me in una riunione vera, fisica: se mi avessero di fronte, vestita come sono ora in smart working, mi prenderebbero sul serio?