23 gennaio 2020

Io c'ero. Davos, un anno fa.

Davos è una prova di resistenza, prima di tutto fisica. La temperatura segna quasi -20 gradi. L’agenda dei lavori inizia alle 7.15 con i networking breakfast e finisce alle 3 di notte (per chi vuole spingere al massimo) al primo piano di qualche hotel con un bicchiere riempito di ghiaccio e alcol. Si passa da una stanza all’altra, da un hotel a un altro, lungo una promenade che alle sei del pomeriggio appare lunga il doppio di quanto sembrava la mattina. Inutile contare i caffè bevuti: anche quelli vanno annoverati alla voce “relazioni”. Condividi tavoli, sgabelli, scalini e angoli che sembrano meno caotici di altri. Cerchi disperatamente un metro quadrato dove appoggiare un pc e una lounge dove poter sgranocchiare qualcosa.
Per entrare nelle lounge, dicono, basta esibire il biglietto da visita. La realtà talvolta è un’altra: se sono “vuote”, quindi entro le 9.30 del mattino, puoi sorseggiare seduta comodamente sul divanetto un caffè con tanto di pasticcino. Ma da metà mattina in poi è una caccia al posto che si libera: prenoti, riservi, aspetti. Se sei “dentro”, la dritta all’italiana divenuta globale è che: tutto quello che vedi è un gadget che puoi pensare di tenere e portar via: tazze, occhiali da sole (di plastica e finiti), cappelli col pon pon, semplici penne.
 Le hostess nei corridoi distribuiscono senza grandi successi le tante copie di quotidiani di carta in cerca di lettori. Il tempo di fermarsi a leggere è poco: stimoli non ne mancano dentro e fuori il Congress Center, lì dove solo il badged formato top ti può portare. Ma per chi non accede c’è il comodissimo streaming via link e soprattutto, ci sono i meeting organizzati outside negli hotel.
C’è un’intera via di negozi che, per una settimana, ha messo in cantina scaffali e prodotti. I commercianti, che si staranno sicuramente godendo una meritata vacanza al caldo, hanno abbandonato le vetrine a Facebook, Accenture, Google, Saleforce ma anche allo stato del South Africa. Ogni spazio retail è una location di eventi-networking-conferenze.
 C’è da impazzire a mettere ordine al programma ma di certo non ci si annoia a Davos. L’importante è riservare, ovunque. Funziona come in America con le gentil donne all’ingresso che controllano che tu sia in lista e identificano il tuo badge con lo smartphone. The red line. Controlli di sicurezza altissimi, stile aeroporto, guardaroba affollati di cappotti e pellicce, sciarpe e cappelli chiusi in sacchetti di plastica e per molte donne il cambio di scarpe dai moon boot o similiari ai tacchi. Free in molti luoghi, a cinque euro in altri. Il caro prezzo dell’essere femminile anche con la neve che fuori è alta oltre un metro.
Eppure non puoi non esserci. Il bagaglio di informazioni che ti porti a casa (comprese le ore di inglese) è uno stimolo a pensare diversamente. Ogni evento, video, frase ti resta stampata. Osservi, impari e pensi a come sfruttare al meglio.
 Ma Davos è anche reputazione. Davos è un cinema ben costruito che muove diverse leve interne ed esterne e, al di là degli argomenti e degli scenari più vicini e lontani, è uno sguardo sul mondo e tutte le sue facce riunite attorno a un tavolo: da Singapore a Tokyo, Gran Bretagna, Spagna, America. Facce unite da un lingua comune che è l’inglese, dallo stesso bisogno di “esserci”, dal solcare una promenade avanti e indietro fin dalla prima alba del giorno, incorniciati da quei monti incantati di neve.