22 giugno 2020

Come un pesce nell'acquario

L'hanno chiamata sindrome della grotta, la casa come bene rifugio e tana, la nostra difesa dal mondo. Il non volere uscire perché si sta troppo bene chiusi tra le proprie mura, a volte anche da soli ma, in generale, senza ciò che c'è fuori. Senza traffico, senza consumismo, senza caos e rumori, senza gente, senza finzioni.
C'è da stupirsi a pensare come abbiamo vissuto in questi ultimi mesi.
C'è da stupirsi del fatto che siamo pure stati bene privati di tante cose che ci erano familiari, quotidiane, normali. Siamo sopravvissuti senza il calcio, per esempio. Ci siamo vestiti senza mettere i tacchi ai piedi. Siamo riusciti a lavorare senza fare i pendolari, consumando ore di vita per raggiungere gli uffici. Ci siamo allenati senza entrare e usare gli attrezzi della palestra. Siamo sopravvissuti anche senza bere spritz assiepati in un angolo di strada. Mi fermo qui.
Non tutto è oro ciò che luccica, avete ragione.
Ci sono state derive, solitudini divenute isolamenti. Liti e famiglie rotte o un po' sconquassate.
Ma a leggere i giornali in questi giorni mi accorgo che ci sono sempre due facce della stessa medaglia; e ci sono sempre due diversi interessi distanti e distonici nei confronti dello stesso quesito, argomento.
Parliamo dello smart working. Un tema che è entrato nel vivo del dibattito.
C'è chi lo vede, nei termini e nei modi corretti, il progresso e l'appagamento di quello che in termini tecnici viene definito il well-being aziendale, ovvero il benessere legato alla difficile conciliazione di ritmi di vita e di lavoro. E anche una grandissima fonte di risparmio: meno costi per le aziende e pure per i singoli. Ma c'è, di contro, chi lo vede come il mostro nero. C'è chi pensa che chiunque stia a casa non faccia nulla, si sollazzi, prenda il sole, guardi serie Netflix a non finire. Chi pensa che solo seduto su una sedia d'ufficio visibile e controllabile, un essere umano produca. E chi pensa che solo tornando "a come si era prima" risolveremo un po' di problemi.
Quali?
Alla fine si tratta di rispondere a una semplice domanda: cui prodest il ritorno allo status quo e chi ci guadagna invece se il lavoro resta da remoto?
I negozi e i bar del centro sono ovviamente in difficoltà, senza lavoratori che in pausa pranzo staccano buoni pasto e strisciano bancomat. Di contro, i grandi big dell'e-commerce festeggiano perché loro arrivano ovunque, a casa come in ufficio. Anzi, alcuni uffici oggi neanche più hanno il servizio di portineria... quindi meglio il domicilio per la consegna di ogni bene.
Vogliamo parlare delle piattaforme digitali che hanno scalato ogni classifica dell'intrattenimento, della formazione, della connessione senza vincoli oramai di tempo e ore (anche quelle del cartellino timbrato, sia chiaro)?
Persino gli architetti visionari stanno progettando le nostre nuove dimore con nuovi spazi per lo smart working mentre gli immobiliaristi iniziano a fare i conti con progetti di uffici e centri direzionali abbandonati sulla carta o peggio,  con spazi diversi, vuoti, non occupati. Ma poi c'è chi non vede l'ora (concessionarie, benzinai etc) che si torni a fare cassa dai nostri spostamenti convulsi, con le autostrade percorse ai 90 all'ora, zuppe di camion in doppia corsia e con il contachilometri delle nostre povere auto ormai a cinque zeri. Alla faccia della C02 e dell'ambiente.
Est modus in rebus, dicevano i latini. Dobbiamo cercare la giusta misura. Un nuovo equilibrio che prenda il buono di entrambe le facce della stessa medaglia.

Dal canto mio, mai come in questi mesi tutto è stato così cristallino.
Mai come in queste settimane di ritorno alla precedente vita, vissuta ancora (per fortuna) in fugaci flash, mi sono sentita di rifiutare con forza alcuni comportamenti del mio passato.
Sto facendo molta fatica ad ammettere, soprattutto con me stessa, che si sono riposizionate le aspettative sulla base di una nuova qualità della vita.
La verità è che in questa nuova vita ormai ci sguazzo dentro felice come un pesce in un nuovo e grande acquario... il cui unico bisogno è cambiare acqua ogni tanto.

3 giugno 2020

Janis, Norah e B&B

Te ne sei andato in silenzio, senza dirmi nemmeno che eri ammalato. L'ho scoperto quando era già troppo tardi e sei scivolato via senza salutare nessuno, troppo in fretta e con grande dolore. Ogni volta che ascolto una canzone di Norah, Janis o dei tuoi B&B che suonavi alla chitarra, la mia mente viaggia indietro di 18 anni. Solo 12 mesi eppure, hanno significato qualcosa: hai solcato nel profondo delle mie vene alcune gocce della tua vita e del tuo mondo che ancora oggi scorrono in mezzo ad altro sangue, perfettamente coagulate. Non sei stato nient'altro che te stesso sempre, coerente e fedele. Mi hai insegnato a "voler bene" nel vero senso della parola. Mi hai dato la forza di essere libera e di andarmene. Non immagini cosa e quanto mi hai dato. Me lo sono tenuta dentro come un tesoro, senza mai dirtelo, ma forse te l'hai sempre capito, perché sapevi. E ora, ogni tanto, guardo su tra le nuvole: quando in radio passa una delle tue musiche, osservo il cielo, rammento uno dei tanti frammenti che ho fermato nella mia testa e so che te sei ancora lì, a osservare questa mia vita.
E, purtroppo, so anche che cosa mi diresti immediatamente di fare.