C'è un tempo per fare e un tempo per star fermi e riflettere.
Gli antichi erano più saggi di noi, ma al tempo non esistevano il wifi e il cellulare, era un gioco da ragazzi passeggiare tra i colonnati (peripatoi) e dedicarsi alla vita contemplativa, ovvero alla concentrazione filosofica, al pensiero razionale.
Persino 20 anni fa era più semplice staccare la spina, nel vero senso della parola. Si usciva per fare due passi lontano da tutti e il telefono restava lì, attaccato al muro, in casa sopra un mobile. Suonava e non rispondevi, perché non c'eri. Punto. E neanche sapevi, al ritorno, chi ti aveva cercato.
Ora come fai a non "esserci"? Devi negare persino la tua presenza virtuale, facendo leva su tutti i sensi: "non ho sentito", "non ho visto", "non posso, scusa ti richiamo dopo, domani, in un altro momento".
Non è un elogio dei tempi andati. Solo una constatazione che mi porta a una riflessione inficiata da questi giorni di clausura: ci siamo talmente ubriacati di presenza e operosità, sulla scia dell'eterna connessione al mondo, che non riusciamo più a vedere e a dare il giusto valore al tempo.
Se non facciamo, se non agiamo e se non occupiamo ogni minuto o slot di agenda, è come se sprecassimo vita. Cosa ci rende impossibile stare fermi (non solo, intendo, con l'auto parcheggiata in garage) e pensare?
Prima suggestione.
In questi giorni ho ripensato all'esame di filosofia dato all'Università: l'unico, se non consideriamo quello di Estetica che mi è servito per fare numero e perché mi piaceva la parte monografica.
L'esame sostenuto nel lontano 1999 parlava proprio del Concetto di Tempo: da Seneca a Hegel. Lungi da me addentrarmi nei meandri di una discussione di cui ricordo poco o nulla. Ma quei libri tanto sottolineati sono oggi davanti a me, sulla libreria che ho di fronte, e mi dicono qualcosa.
"La vita non è breve - scriveva Seneca - viene inutilmente sprecata".
E ancora: "Potrebbe esserci al mondo qualcosa di più sciocco di coloro che sono indaffarati più degli altri e per poter vivere meglio si preparano la vita futura sacrificando quella presente?"
Non odiatemi, forse sono i retaggi della mia educazione classica vissuta per troppi anni. Ma su questi ho basato la mia formazione.
Seconda suggestione.
E' da un paio di giorni che riecheggia nella mia mente la parola annaspare. Ci ho messo cinque minuti anni fa per spiegare il significato di questo verbo a un'amica di Singapore, nelle mattine in cui ci scambiavamo competenze: io di lingua italiana, lei di inglese. Oggi questo dimenarsi scomposto in cerca di un appiglio, questo senso di arrabattarsi attorno a qualcosa senza concludere, è così evidente da fondersi completamente con il concetto di tempo.
Incapaci di gestire i momenti vuoti o i diversi tempi di una nuova modalità lavorativa e anche di un nuovo stile di vita, abbiamo cercato di riempire le nostre giornate di attività per scimmiottare i ritmi di prima. Ritmi stancanti, prosciuganti dove non avevamo tempo di pensare e neanche di annoiarci. Sì annoiarci.
Il problema è che ora pur di "fare", facciamo anche troppo e in malo modo. Dirette no-stop, streaming, videocall infinite, chiamate orarie (nel senso che durano quasi 2 ore), selfie in ogni posizione del video, ginnastica con 80 diverse app. Riempiamo tempo.
Mi spaventa questo turbine virtuale di azioni perché molte non hanno senso se non per impegnare la nostra attenzione che potremmo dirottare altrove.
E' vero: è anche un modo per sentirsi meno soli, meno lontani, meno chiusi, meno isolati. Ma il proliferare di attività non è proporzionale alla qualità della vita e del nostro lavoro.
Dire stop, fermarsi, ogni tanto ha più senso che non farlo.
Nella musica, in ogni spartito, la pausa è un segno grafico da cui non si può prescindere perché scandisce un momento di silenzio il cui valore trova corrispondenza nella durata del suono. Nella musica vocale, è la pausa che lascia spazio al respiro.
Per un solo dolcissimo umore del sangue,
per la stessa ragione del viaggio viaggiare
il cuore rallenta, la testa cammina
in un buio di giostre in disuso
Sono tornata ad ascoltare De André.
24 aprile 2020
15 aprile 2020
E poi...
E poi una mattina ti svegli e piangi.
"Non ne vale la pena".
"Lascia che esca, è il mio unico modo per sfogare".
La testa diventa insolitamente vuota.
Il corpo non ha peso.
Fluttui tra le camere quasi stordita.
Rifiuti il senso di presenza, il rapporto con il reale.
Sei anestetizzata dalle troppe emozioni esplose insieme in modo così dirompente.
Rifiuto, disgusto, rabbia, negazione, schifo. Nessuna prevale, hanno tutte lo stesso peso. E ora pesano più di te, più di quanto indichi la bilancia.
Sei piena. Zuppa. Impregnata e strizzata fino all'ultima goccia. Non c'è più nulla. Neanche un rivolo d'acqua in quel piccolo panno spremuto.
Così decidi, dopo mille acrobazie, che nonostante tutto vuoi lasciare memoria anche di questo. Perché un giorno vorrai ricordarti di mercoledì 15 aprile 2020.
Questo giorno resterà lì con la sua croce nel calendario e sul tuo cuore.
9 aprile 2020
Respirare.
Respirare.
Mai come adesso sento la pregnanza di questo verbo. Me la
sento addosso, tra le costole, in quel peso che ogni tanto mi si ferma sul
petto e preme come un masso, nella gola chiusa e stretta, nelle narici, lungo
le braccia che perdono forza, nella mia mente che mi sembra annebbiata e nelle
membra stanche.
L’altro giorno sono uscita a fare due passi. Non uscivo da
qualche giorno per pigrizia e pensieri. Mi considero una persona
allenata ma evidentemente il lavoro aerobico non funziona in situazioni eccezionali.
Di ritorno, dopo aver allungato il passo e cavalcato i gradini dei tre piani
verso casa, mi sono seduta in divano, ansimante, stanca, eterea, fuori da ogni
dimensione.
Avevo solo preso aria. Ero tornata semplicemente a respirare l’ambiente.
La sensazione di fresco. Il sapore dell’erba. Il vento addosso.
La mia mente si è avviluppata nei ricordi di tanti anni fa.
Il respiro come il battito del cuore non necessita della
nostra mente. Ma è incredibile come essa possa condizionarlo. Lo so con estrema
certezza da quel gennaio del 2006, quando ebbi il mio primo attacco di panico.
Inatteso, immediato, mi ha trovato debole e col cuore a pezzi e mi ha colpito
nel profondo. Ha colpito nella mia paura più remota e atavica: quella di
morire.
Ricordo di aver visto la strada girare. Le voci lontane. La
testa appannata, la vista non lucida. Il cuore batteva forte, la gola.. beh,
sembrava che qualcuno mi strangolasse. Incapace di fare anche solo un passo in
avanti. Senza fiato né respiro. Mi sono appoggiata al muro freddo. Ho pensato
per la prima volta nella mia vita: ho un infarto.
Solo chi l’ha vissuto può veramente capire, per gli altri
sembrerà strano, insolito, fuori dalla norma. Non è così. E’ terribilmente reale,
la prima volta. E forse anche la seconda.
Agli attacchi di panico, col tempo ci si abitua. Diventano
ansia e sai come conviverci. Li senti arrivare, li anticipi, li plachi perché
fermi la mente e la sconnetti dal corpo.
Il respiro è il primo sintomo. Perché l’ansia toglie l’aria.
Quel giorno mi ha reso diversa ma non sarei la donna di oggi
senza quegli episodi che mi porto dentro. E non avrei imparato a conoscermi
bene come oggi. Perché il mio corpo somatizza in un modo originale, da sempre.
Ogni segnale ha un perché, una spiegazione. Il nostro corpo ci parla e ho
imparato ad ascoltarlo.
E ora io mi
sento senza aria. Dovrei spalancare le finestre e respirare da fuori. Mi sono
chiusa nella protezione della casa che è in questo momento sicurezza, ma là
fuori c’è un mondo che non mi deve destabilizzare. Perché mi fa solo respirare
davvero.
8 aprile 2020
BIANCONIGLIO O CAPPELLAIO MATTO?
In questi giorni in cui sto iniziando a pensare al “dopo” e al ritorno alla vita “normale” (sempre che la normalità faccia davvero parte di ciò che si era “prima”) mi sento stretta tra due binari paralleli, a metà tra due vite completamente sfasate. Ho pensato a lungo a come declinare concretamente questa nuova sensazione e, per trovarvi un senso, ho ripreso in mano una favola che quando ero piccina non ho mai apprezzato veramente: perché non l’ho mai guardata davvero fino in fondo. Parlo di Alice nel Paese delle Meraviglie: un romanzo, prima che un cartoon di cui tutti abbiamo scolpito in testa le immagini, dove Lewis Carroll ha sfruttato tutta una serie di metafore, similitudini e allegorie per raccontare un percorso di crescita interiore.
Così ho ragionato: e se anche noi, come Alice, dopo essere caduti all’improvviso nel buco nero della Pandemia, avessimo intrapreso un viaggio?
E se questo viaggio fosse, com’è successo a quella biondina dagli occhi vispi e la lingua lunga, una grande occasione per imparare a conoscere meglio noi stessi e le emozioni dell’animo umano?
Partiamo dalla caduta, quella da cui ha inizio il viaggio assurdo di Alice e forse anche il nostro. Il mio di certo è partito il 6 marzo scorso, quando ho chiuso dietro di me la porta e ho indossato il pigiama a fine giornata, non ancora consapevole che non sarei più uscita. Non con la libertà di prima. Intrufolandosi in quel “buco” nell’albero, Alice insegue la sua curiosità ma soprattutto un arruffato e frettoloso bianconiglio con l’orologio che gli esce dal panciotto. Anche noi forse siamo entrati in una tana buia e nascosta. Il perché l’abbiamo fatto non ha nulla a che fare con la favola, perché è chiaro ed evidente che non è stata una nostra scelta; eppure lo strapiombo in cui siamo caduti è altrettanto profondo: è stata una caduta lenta nel vuoto, fino al fondo della cavità.
Ma cosa trova in fondo al buco, Alice? Rileggendo il libro ho fatto un’insolita e dimenticata scoperta. Alice trova un appartamento ben arredato, che è guarda caso la situazione in cui è finito ognuno di noi dopo un decreto che ha vietato ogni possibilità di uscita se non per giustificato motivo.
Siamo rimasti intrappolati in un cunicolo, un libro, un sogno, chiamatelo come volete ma è così reale da sconquassarci ogni giorno le emozioni. In questo nuovo scenario ci riappare d’incanto la figura del bianconiglio che è così lapallissiana: è l’allegoria dell’uomo ansioso, divorato dal suo rapporto con un tempo (che non ha), in ritardo perenne nel suo affaccendarsi privo di senso. Non vi ricorda qualcuno?
Incredibile a pensarci ma l’unica figura del romanzo antitetica al coniglio bianco, nel suo rapporto con il tempo, è un uomo il cui nome inneggia alla pazzia: il Cappellaio matto. E’ l’unica figura del libro caratterizzata da un’allegra monotonia legata alla condivisione con pochi amici della stessa routine tutto il giorno, ogni giorno: per lui e per chi lo circonda sono sempre le sei del pomeriggio e l’ora del tè.
Tempo, routine, abitudine. Ma non è il solo rimando.
In tutta la storia, nelle sue vicende, Alice mangia biscotti che la fanno rimpicciolire, fette di torta che la rendono gigante. Cambiare dimensione diventa l’unica via per proseguire il suo viaggio. Anche noi abbiamo dovuto cambiare dimensione e forma, non solo estetica. Siamo diventati piccoli e grandi (allegoria degli alti e bassi della vita) ci siamo arrabbiati, scoraggiati, ritrovati soli e abbiamo (forse) anche pianto. Di certo, abbiamo iniziato una strana maratona senza sapere dove andare e senza esseri umani intorno. E in questa dualità tra avventura e abitudine, stiamo imparando ad accettare, come Alice, debolezze e stranezze. Ma veniamo al dunque che non voglio annoiarvi: il risveglio di Alice è provocato da un evento traumatico: la Regina di cuori che vuole tagliarle la testa.
Anche noi, temo, ci risveglieremo traumaticamente.
Perché è certo: prima o poi ci sveglieremo.
La storia sarà finita e forse qualcuno, come Alice, avrà la sensazione di essersi addormentato per un po’ e di aver sognato un mondo strano. Ma c’è un ultimo particolare degno di nota: Alice, ancora intorpidita, ha il coraggio di raccontare la sua storia alla sorella.
Può essere un gesto liberatorio o un monito a non dimenticare. Dire e scrivere cosa abbiamo vissuto ci aiuterà, forse, a non dimenticare chi siamo stati, cosa abbiamo fatto, sentito e provato dopo la nostra caduta. Qualcuno potrebbe stupirsi e arrivare a credere che in quel mondo lontano da tutto, fatto di personaggi e voci insolite, ci sia un senso.
Un nuovo significato da dare alla nostra vita, di ritorno alla superficie.
2 aprile 2020
La vita i tempi del coronavirus/4
Il 6 aprile sarà un mese esatto che sono fisicamente chiusa
in casa.
Ricordo ancora cos’è successo il 6 marzo scorso: dov’ero, le
ultime cose che ho fatto prima di chiudere dietro di me la porta, indossare il
pigiama e serrare il chiavistello senza minimamente pensare che l’indomani non
sarei più uscita. Non quotidianamente, almeno: non con la libertà di prima.
Oggi per la prima volta da quel giorno, andando con la
memoria a recuperare ogni frammento d’immagine del “prima”, ho iniziato seriamente
a pensare al “dopo”. A quando tornerò alla mia vita. E così, ho ardentemente
sperato, per più di qualche secondo, di non tornarci: non voglio tornare
esattamente a com’era prima. Non voglio tornare puntualmente a com’ero io
prima.
Per non riavvolgere di scatto il nastro all’indietro senza
alcuno strappo, ho pensato innanzitutto che non dovevo dimenticarmi neanche per
un istante delle emozioni provate in questi giorni di clausura. Di quello che
ho pensato, provato, vissuto pienamente e poi scritto.
Sbaglia chi pensa che fermarsi e non poter uscire di casa
sia sinonimo di non vita. Se si intende vita quella vissuta fino al 6 marzo, di
certo siamo in una dimensione opposta. Ma c’è un sapore nuovo in questa diversa
e insperata dimensione. Io l’ho saputo apprezzare, nonostante tutto, e non
voglio dimenticare cosa ho provato e pensato in questi giorni. Per questo lo
scrivo e lo metto nero su bianco. Perché io sono anche stata bene, lontana da
molte cose. Sono stata bene nella ricerca e recupero del mio benessere e di ciò
che mi fa stare in pace con me sé stessa. E’ stato ed è tutt’ora un percorso; e
non è ancora finito.
La prima settimana è stata quasi piacevole nel suo
intontimento e anche, lo ammetto, nella non globale e verticale comprensione di
ciò che stava realmente accadendo. Nell’inconsapevolezza piena della gravità
della situazione, mi sono riappropriata della mia vita e ho rallentato. Mentre
il virus fuori toglieva l’aria ai polmoni a sempre più persone, io ho iniziato
nuovamente a respirare. Era ancora consentito uscire per passeggiate e jogging
e ho riscoperto i broli dietro la collina, la quiete della sera, l’odore
dell’erba. L’aria già iniziava a profumare di primavera e mi sono goduta la
nuova routine, il mio compagno, la nostra vita.
Ho così riscoperto il valore del TEMPO. E guardandomi alle
spalle, ripensando alla sveglia alle 6.10, agli oltre 200 chilometri al giorno
in auto lungo l’A4 stritolata dai camion in doppia corsia, o di corsa giù dal
treno per rincorrere e prendere al volo la metro affollata, mi sono rivista con
la faccia del bianconiglio di Alice con suo continuo tirar fuori l’orologio dal
panciotto: allegoria (anche nella favola) dell’uomo divorato dal suo rapporto
con un tempo (che non ha), in ritardo perenne, nel suo affaccendarsi privo di
senso.
La seconda settimana è stata una lenta presa di coscienza. I
numeri fuori stavano impazzendo, non mi tornavano i conti, ho iniziato a
scandagliare tutti i giornali esteri. Ho iniziato seriamente a preoccuparmi.
Ho cominciato ad avere PAURA per i miei cari e a sentirmi
più sola, anche nel lavoro. Mancava quella parola scambiata in ascensore, nei
corridoi, la pausa caffè con il gossip e la battuta che è comunque una
circolazione sana di informazioni. E’ stata la settimana del mio impasse, e mi
sono ritirata in SILENZIO. Dovevo pensare, dovevo capire cosa stava realmente
accadendo fuori dalla porta a uno, due e migliaia di chilometri dal mio
chiostro. Ho iniziato a scrivere.
La terza è stata la settimana dello spegnimento dei video in
tutte le call e del pigiama. E’ stata la settimana della definitiva presa di
coscienza che non sarebbe passato tutto in fretta. Difatti non ero in smart
working ma in clausura forzata a casa. Non sono più uscita: ho passato sette lunghi
giorni chiusa nell’appartamento, prendendo una boccata d’aria ogni tanto in
terrazza. La scrittura mi ha aiutato a sfogare. Ho letto e pensato tanto. Ho pianto
nel ricordo di chi mi manca. Ero meno ansiosa (talvolta sono quasi
ipocondriaca) ma tristemente realista.
Mentre scrivo sono a metà della quarta settimana, in quella
che considero la settimana della nuova NORMALITA’ dove sono venute meno le cose
eccezionali che ci si era inventati all’inizio: la gente non canta più a
squarciagola dai balconi, non applaude più i medici in un gesto di comunità tra
il liberatorio e la vicinanza a chi davvero sta dando tutto.
Così mi sono accorta che l’uomo può abituarsi a tutto. E’
solo questione di tempo.
La mattina mi sveglio quasi sempre alla stessa ora, leggo la
rassegna, i giornali, faccio il caffè mi siedo e faccio colazione per almeno 15
minuti. Poi mi preparo, mi trucco (poco) mi vesto comoda.
Questa nuova vita TRANQUILLA,
nonostante i buoni ritmi di lavoro e pure i problemi della gestione di alcune
faccende da remoto, è diventata normale e ci ho stranamente trovato un senso.
Ma ho iniziato a inquietarmi al pensiero di quando finirà e ho avuto una nuova gran
paura: mi sentirò nuovamente sicura ammassata in un vagone della metro a
Milano? Mi sentirò sana al primo sternuto indotto da un polline? Avrò la forza,
girando come una trottola a contatto con chiunque per lavoro, di abbracciare
mio padre con i suoi stent al cuore? Guardando i cinesi che girano con la
mascherina, le ore d’aria contate al giorno e monitorate con lo smartphone, gli
ingressi centellinati vedo uno squarcio di futuro prossimo ma non trovo ancora
grandi risposte anche sul mio futuro e così mi attorciglio nei pensieri di cosa
vorrei salvare di tutto quello che ho provato in questi 31 giorni.
Servirà un
grande CUORE per non dimenticare. Neanche chi siamo stati mentre eravamo
chiusi, soli e inermi con noi stessi.
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