27 ottobre 2020

Essere fragili.

Ci ho messo un po' a riconoscere l'origine della malinconia e anche dell'inquietudine che adombrano da ieri le mie giornate. Non è l'autunno, i cui colori e odori, stranamente caldi, sono un toccasana per gli occhi e la mente. Non è la temperatura che, comunque, sfiora i 19 gradi nelle ore centrali della giornata. Non è il cambio d'ora che ha allungato i miei sonni profondi ma inquieti. Né quella sottile umidità che ancora non riesce a pesare come un macigno sulle ossa. 

Non è nulla che ha a che fare con ciò che ci circonda e mi attornia. E' la nuova prospettiva che si è insinuata nel cuore più che nei neuroni attenti ai Tg e all'informazione totalizzante. 

Nulla sembra essere fisicamente cambiato dall'altro giorno ma non è così. L'estate italiana è stata una boccata d'aria affollata e pura: un desiderato ritorno alla normalità della nostra vita sociale più che personale. Abbiamo respirato i profumi dei cibi ai ristoranti, le nuove stoffe nei negozi, il damasco dei teatri, la moquette dei vecchi cinema, l'asfalto a bordo di una bici o seduti a un tavolino in mezzo alla gente, con la maschera di tessuto in tasca, le mani vischiose e quel senso di "finalmente" tutto è apposto. Abbiamo assaporato, complici le vacanze, la bontà del giusto mezzo: un equilibrio inaspettato tra la vita che ci ricordavamo e il nuovo mood di semplicità imposto dal covid e dai mesi di lockdown.

A settembre ci siamo imbizzarriti, saltando su due piedi spaventati da un topolino. Abbiamo stra-fatto sperando che i raggi Uva e Uvb di una lunga estate potessero sconfiggere il covid ancora per un po'. Abbiamo sognato a occhi chiusi, scodinzolando qua e là, su e giù, a destra e a manca; ma ora quel virus ci ha riaperto entrambi i fanali sull'inevitabile. Abbiamo vissuto una bolla di incoscienza e forse di non curanza, nel senso che non ci volevamo porre il problema... fin quando non ci abbiamo sbattuto la faccia.

Ecco qua: ci abbiamo sbattuto e siamo balzati all'indietro con un solo salto. Lo sappiamo tutti, ce lo sentiamo dentro, nel profondo: torneremo con l'animo a come ci sentivamo a marzo. Anzi no, ad aprile. perché a marzo era tutto nuovo, inaspettato e incomprensibile, mentre ad aprile avevamo capito. Ma forse sarà peggio. Ora non siamo in lockdown, viviamo una nuova epoca, quella del: "vivamente sconsigliato", "severamente raccomandato" .. ma da qui al divieto è un attimo. Si accavallano nella mente le storie dell'estetista che ha chiuso, del titolare dell'agenzia di viaggi in fallimento, della consulente HR a partita Iva a casa senza clienti, del proprietario della piccola palestra in affanno in cerca di un possibile futuro sostenibile. Non sono le notizie che vedo/sento in tv e che so a volte, essere forzate, costruite a tesi. Sono amici e conoscenti. Sono veri. Sono vicini. Sono reali.

Sono malinconica perché, anche se mi sforzo di trovare qualcosa di positivo in questo ritorno a una dimensione privata e casalinga - anche se oramai mi è chiaro che non è né sarà lenta né sostenibile - temo per il nostro futuro. Temo per la salute mia e della mia famiglia. E temo anche per la tenuta di questo complicato sistema alle prese con un secondo round più difficile del primo; perché la catena delle disgrazie e l'effetto sociale anche di una sola chiusura, di un fallimento, di un "stacco la spina" sarà maggiore rispetto alla primavera. 

Sappiamo dunque tutti cosa ci aspetta. E spero di non doverlo affrontare ma mi sento fragile e colpibile. Mi sento senza difese se non quella dell'isolamento. Ma quando mai isolarsi e non avere contatti, legami, scambi è stato il modo corretto per affrontare il mondo con tutte le sue drammatiche sfumature, contraddizioni e paure? 


14 ottobre 2020

Il profumo del tempo perduto

Le ho intravviste in un angolo nascosto del negozio e non ho potuto farne a meno. Le ho comprate. Oggi la cucina profuma di patate dolci o, come le chiamavi te, patate americane. 

Mentre ne mangiavo una con un cucchiaino, ancora calda e bollente, appena sollevata dall'acqua di bollitura sono tornata indietro di oltre 35 anni a quelle giornate dove tutto sapeva di semplicità. A quei sapori autentici e perduti con cui sono cresciuta grazie a te. 

Il pane ripieno di burro e zucchero. La torta di fecola. Il caffè filtrato e riscaldato sopra la stufa. Le castagne lessate di cui non si riusciva a togliere la buccia e le favoine che tutti chiamano lupini, con un po' di sale sopra. L'arrotolato di patate e spinaci che servivi col sugo e che facevi solo te. I ghiacciolini colorati alla fanta con gli stecchini nel porta ghiaccio del freezer. Gli schioppetti, che per gli altri sono popcorn, con le pannocchie vere che noi sgranavamo per tenerci impegnate. Il brodo con tutte le sue frattaglie, alcune orride solo agli occhi ma quanto mi piaceva il riso coi durelli di pollo. E poi le patate americane che diventavano una torta, in quell'unico tegame di metallo, che sfidava a bontà la pinza onta con i ciccioli. 

Questa eri tu, nonna. E oggi, con questo odore buono in cucina, sono ritornata a quei giorni, in cui bastava una bici scassata per girare attorno alla casa, una paletta per giocare in giardino, un cagnolino abbandonato per condividere le coccole e qualche fiaba sui generis inventata sul momento per aprire mondi magici prima di un sonno che sempre tardava a venire.