24 marzo 2020

La vita ai tempi del Coronavirus/3

Terza settimana di reclusione.
Non lo chiamiamo più smart working. Non è lavoro agile o telelavoro: siamo ufficialmente reclusi dentro mura amiche e confortevoli senza alcun contatto sociale, con l’agognata possibilità di mezzora d’aria al giorno tra il terrazzo e una ristretta area verde comune condominiale. Per i più fortunati, un giardino privato.
Io lavoro da casa da ormai 16 giorni e per fortuna lavoro! Le giornate da lunedì a venerdì sono cadenzate dai ritmi operativi e passano agilmente tra un documento, una call e un comunicato stampa. Il sabato e la domenica sono più lenti ma al momento vivo con grande tranquillità questo momento.
Pensavo di avere meno forza, invece non mi pesa (ancora) stare chiusa. L'idea di non uscire, di non camminare, non andare per negozi, non andare in ufficio poteva essere psicologicamente impattatante. Ma io sto resistendo più di quello che immaginavo. Resistono i miei nervi, resiste il mio sorriso. Lo sfodero ogni sera verso le 18.30 con la mia famiglia. Anche noi abbiamo un appuntamento video come con la Protezione Civile. Ci teniamo compagnia, ci raccontiamo come stiamo, cosa facciamo. Avere due bimbe piccole dall'altro lato del telefono aiuta tutti. Aiuta soprattutto i nonni. Ma siamo tutti forti. Io ho una famiglia forte. Un po' ci siamo abituati a non vederci sempre: whatsapp è per noi uno strumento comune anche perché la mia famiglia è in ogni dove: a Praga, a Pisa, a Rovigo. Ci scambiamo storie, articoli di giornale, video divertenti, temperature, ricette per la cena.
Sulla scia dei precedenti due post, anziché un elenco di cose, voglio condividere cosa mi è successo in questa terza settimana in cui, lo ammetto, ho preferito le call telefoniche a quelle video, ho cucinato di meno e ho dormito di più. Molto di più.
In questi ultimi sette giorni ho pensato molto a come viveva mia nonna. Lei sì che non usciva quasi mai dalle mura di casa se non per andare al supermercato, facendo proprio 200 metri.
Lei vestiva sempre di nero. Adorava pochi e comuni vestiti, non si arrabattava per essere elegante, diversa. Doveva essere comoda. Aveva le galline, i conigli, l’orto e gli alberi da frutta. Il latte lo andava a prendere dalla vicina di casa. Quando ero piccola ci andavo anche io con un pentolino. Quel siero durava una giornata poi, il giorno successivo si ripeteva il rito. Le pannocchie erano sul selciato dietro casa a maturare. L’aiutavo a sgranarle per farci la farina e con le più piccole i pop corn. Si facevano conserve per un anno nella lavanderia di casa, tra una scatola di pulcini sotto la luce per crescerli al caldo, il baccalà appeso ai fili della biancheria perché si essiccasse e l’odore della cenere quando lavava i panni. Molti ancora a mano. Il caffè era filtrato con la carta, si cuoceva nella stufa alimentata a legna tagliata dal nonno. Aveva alberi di limoni, pesche e susine. Ogni tanto nei prati attorno, lungo il fosso, si andavano a raccogliere le erbette per fare frittate e risotti. Faceva un’unica torta, semplice, da inzuppare nel thè. Non buttava via nulla: bucce di patate, pane raffermo, pasta scotta, interiora, insalata annerita. Aveva un’etica del risparmio da dopo guerra.
Ho pensato a lei in questi giorni. Sono quasi 400 ore che non indosso un tacco. Non metto una giacca. Una camicia. Mi trucco poco. Ho riscoperto, in assenza di estetiste e parrucchiere, i vecchi rimedi di un tempo: il peeling alla pelle col sale fino, gli impacchi ai capelli all’olio d’oliva. Cosa d’altri tempi che prima non avevo tempo e coraggio di fare. Pagavo e altri mi davano un servizio più raffinato, più chimico, più chic. In questi giorni che passo davanti all’armadio e vedo l’ammasso di cose, in queste ora che stiamo centellinando l’acqua per non scendere al supermercato ogni due giorni e beviamo il caffè dalla moka piccola per non consumare troppa polvere, mi sono accorta che mi serve davvero poco per condurre la mia vita in modo sano. Privata del contesto sociale, senza alcuna immagine da dover sostenere ma concentrata nel preservare la mia salute, quella dei mie cari e la mia produttività sul lavoro, non mi serve altro che un pc, un telefono, una dispensa mediamente fornita e pochi vestiti.
Mia nonna non era una persona felice. Non poteva esserlo per quello che aveva visto e vissuto. Lei, quella vita, non ha avuto la forza di cambiarla. Io ho avuto l’opportunità di uscire dalle mura perché l’ho scelto: ho visto il mondo, conosciuto popoli e culture. Ecco questo mi manca. Mi manca il mondo fuori ma non riesco a non pensare al non fitto elenco di persone che ho sentito e tenuto legate a me in questi ultimi 16 giorni, e non grazie ai social. Al netto dei colleghi di lavoro e della famiglia, sono poche, vere e uniche. A me bastano e a loro dico grazie.

17 marzo 2020

La vita ai tempi del Coronavirus /2

E' incredibile quanto il silenzio, dentro e fuori casa, stimoli il pensiero ma soprattutto l'emozione.
Non so voi, ma mi ritrovo con gli occhi lucidi a guardare con orgoglio, empatia e spirito nazionale/collettivo, gli italiani che cantano dalle finestre, i medici in corsia, i pazienti che con i loro video ci raccontano il dolore della  malattia, perfino i post di anonimi compaesani che rendono evidente una realtà che, fino a un mese fa, era distopica e, per questo, inverosimile.
Una sceneggiatura da Oscar e incassi record al botteghino che noi italiani abbiamo, con la nostra creatività, perfino ironizzato in vignette, fumetti, filmati amatoriali ai limiti della satira.

Stamani, mi sono chiesta (di nuovo): cosa ho imparato da questi primi nove giorni chiusa in casa in smart working?

1. Sono fortunata, perché ho un'azienda che tutela la mia salute. Se non avessi cambiato lavoro oltre un anno e mezzo fa sarei in redazione a solidarizzare con i colleghi di altri giornali per le situazioni  assurde in cui stanno operando molti giornalisti, costretti a misure di tutela solo dopo l'evidenza dei tamponi su alcuni colleghi. A loro va la mia piena solidarietà.

2. Sono felice di non essere sola. Lo dico senza mezzi termini. Se tutto questo fosse capitato anni fa quando abitavo in 50 metri quadri a Padova, senza avere al fianco il mio compagno, non so quanto e come ne sarei uscita. Perché, al di là di tutto, delle parole, della cena condivisa, di un divano da spartire e di due chiacchiere vere, anche io ho fatto i conti con le mie paure. Ma affrontarle in due è come dividere un enorme peso a metà.

3. Il lavoro agile o smart working ha senso se disciplinato e "contingentato" nel tempo: x giorni a settimana, x giorni al mese. Lavorare da casa, ininterrottamente, per un periodo così tanto prolungato porta con sé grandi opportunità (sia a livello personale che organizzativo/tecnologico) ma anche evidenti svantaggi. L'isolamento, per esempio. Nelle organizzazioni dove i flussi delle informazioni sono meno lineari e osmotici, dove il team non è forte e coeso, dove è più complesso far sentire ogni singolo collega parte di un tutto, il rischio è lo scollamento. Per evitarlo serve un effort maggiore a ogni livello.

4. Gli smartworker si dividono in due categorie: quelli che fanno finta non sia accaduto nulla e pur stando a casa costruiscono il loro set perfetto per le videocall, si preparano, vestono e acconciano come se andassero in ufficio e, de l'autre côté, quelli che volteggiano tra il divano e la scrivania in tuta o pigiama. Nel secondo caso, nella maggior parte dei casi, curano solo il mezzobusto come se dovessero andare in onda da anchorman nel TG delle 13. Poi, hanno finito il turno.

5. E' lapalissiano: le donne potrebbero stare a casa intere settimane ma gli uomini non ce la possono fare. Credo sia questione di dna e ora ne ho le prove. Il maschio deve uscire almeno per 15 minuti al giorno, per una qualsiasi motivazione.

6. Tra un paio di settimane dovremo fare tutte i conti con noi stessi allo specchio. Le donne specialmente. In assenza di estetiste, parrucchiere, massaggiatori e per alcuni anche chirurghi estetici, in assenza di extension, ciglia e unghia finte, di tinture per capelli, scrub e massaggi, saremo più naturali che mai. Ci guarderemo riflesse e dovremo avere il coraggio di riconoscerci davvero per quelle che siamo senza alcun filtro o ritocco. Chi si piacerà ancora, sarà in pace con sé stessa più di quanto non lo sia mai stata. E per le donne sarà più dura, credetemi.

6. A volte penso a quando tutto questo finirà e che cosa farò il giorno in cui tutto tornerà normale. Riprenderò la mia vita come se nulla fosse successo? Abbraccerò i miei genitori e le mie nipoti allo stesso modo? Cambierò qualcosa nel mio modo di comportarmi?

Io credo che non sarò più la stessa persona, quella che ero prima del 20 febbraio. Forse il cambiamento durerà poco e tornerò alla frenetica routine in un batter d'occhio ma temo non sarà così. Cambieremo tutti. Ognuno di noi avrà una memoria personale di quello che è stato. Tanto più tragica quanto più questo virus ci avrà toccato da vicino.
Ma potremmo, se lo vogliamo, essere migliori. Migliori dentro per le scelte che faremo, migliori fuori, nei nostri nuovi comportamenti con gli altri e con il mondo che ci circonda.
Cit. Ci vuole solo coraggio, o forse buon senso, per capire che le lezioni migliori sono di solito le più dure (Anthony Clifford Grayling).

10 marzo 2020

La vita ai tempi del Coronavirus /1

E chi l'avrebbe mai detto che sarebbe toccato a noi? Che il virus sarebbe stato alle nostre porte? Abbiamo compiuto tutti, io per prima, il grande errore di pensarlo lontano chilometri e di immaginarlo come qualcosa di fisico che, per spostarsi e abbandonare le lontane lande orientali, richiedesse tempo e fatica. E invece è stato rapido, imminente, sorprendente nella sua dirompenza.
Eccoci qui dunque: a casa, obbligati a stare chiusi senza contatti umani a guardare dalle finestre strade e piazze semi vuote, a seguire ogni giorno i bollettini medici e metereologici sperando nel caldo e in un vaccino. Il primo, non sappiamo se avrà affetto su questo infido batterio polmonare. Il secondo, sappiamo già che prima di fine anno non sarà disponibile.
Il governo, la politica in generale, ha ondeggiato tra misure draconiane e il marketing spinto. Siamo passati dall'hastag #litalianonsiferma a #stateacasa in due giorni. Non siamo impazziti, abbiamo solo sottovalutato i numeri di un contagio che, pur scientificamente forse in linea con le peggiori influenze del passato (c'è chi ancora ricorda i 5 mila passati a miglior vita nel 1969 per colpa del virus della spagnola) ha messo ko il nostro sistema sanitario perché non evita nessuno neanche, adesso pare, i giovani e sani; in più si allarga con la rapidità di un bicchiere colmo di latte versato di getto su un tavolo di marmo liscio.

Ma ora veniamo a me. Che cosa mi porto a casa da questi primi giorni di smark working?
L'ordine è puramente casuale.
1. Passo molto più tempo con la mia metà con cui condivido ormai minuti preziosi ogni giorno
2. Non mi ritrovo a fare la valigia ogni due giorni
3. La casa è molto più pulita e ho meno lavatrici e camicie da stirare
4. Non mi piastro i capelli da almeno tre lavaggi e questo li rinforzerà di sicuro
5. Credo di aver risparmiato almeno 50 euro al giorno di benzina e autostrada: una cifra che, moltiplicata per tutti i giorni che starò a casa, mi darà un accantonamento complessivo da non disdegnare a fine mese
6. Non ho mai visto così tanti film e letto così tanti giornali
7. Dormo almeno un'ora e mezza in più al giorno
8. Faccio yoga a giorni alterni con la mia app e pur saltando la lezione di danza, con una seconda app, alleno l'en dehors davanti la smart tv.
9. Ho più tempo per studiare inglese
10. Lavoro più o meno allo stesso ritmo di prima e provo la ridente soddisfazione nel pensare che io nello smart working ho sempre creduto, fin dai tempi non sospetti quando nelle redazioni dei giornali i sindacati ostruivano il lavoro in altra sede dalla redazione. Al tempo ho dovuto lottare per avere un portatile, un laptop che poi ha effettivamente sostituito il fisso. Forse perché sono nata freelance, forse perché ho lavorato in ogni luogo e orario: scrivendo e inviando pezzi dai parcheggi degli autogrill, intervistando persone al telefono dall'altro capo del mondo, facendo interurbane dai bar o perfino, all'inizio, nelle cabine pubbliche del telefono in centro città.

Se c'è una cosa che mi manca è il poter andare a trovare mio padre. Ho due linee di febbre che non mi permettono di varcare la soglia di una casa dove c'è una persona, babbo, con alcune complicanze di salute pregresse. Ma io sto bene, è solo precauzione.

Non so se tra un mese ci guarderemo all'indietro facendo un sospiro di sollievo per quanto fatto o disperandoci fortemente per gli effetti che queste misure avranno sul Paese e sull'economia. Potrebbero esserci entrambi i sentimenti.
Io mi auguro che questo virus non intacchi neanche lievemente i miei affetti e mi auguro che qualcosa ci insegni a livello umano, non solo tecnologico.
Parlo del valore del tempo che ci è stato ridato a nostra disposizione perché siamo stati costretti a fermare una routine infernale e forse dopata, dei rapporti fisici con le persone che ci sono state tolte nelle nostre relazioni sociali vere e non virtuali, dell'importanza del bene salute e di avere attorno a noi una società che ti salva e ti cura senza dover spendere un euro, del fatto che alla fine siamo tutti fragili e interconnessi.
La lezione vera, alla fine di tutto, è che il "non tocca a me" è un falso alibi che non ci possiamo più permettere neanche solo con il pensiero.