11 maggio 2020

La giusta distanza.

"Non troppo lontano da sembrare indifferente, ma nemmeno troppo vicino perché l'emozione talvolta può abbagliare". La giusta distanza, Carlo Mazzacurati

Stordita, stanca, prosciugata, come se avessi fatto un lungo viaggio: un mattone sulla testa, come dopo sei ore di jet lag, e le gambe pesanti come dopo dieci chilometri in salita.
Mi sono sentita così sabato sera di ritorno a casa, dopo un'intera giornata trascorsa fuori nel mio primo squarcio di normalità. Due ore di auto lungo la Transpolesana, un ricco pranzo all'aperto con ogni tipo di carne sul barbecue dai miei genitori, torta (ops. pastiera appena sfornata) e caffè in giardino da mia sorella con l'arduo compito di fare la zia a distanza.
Non li vedevo (fisicamente) dai primi di febbraio. Tre mesi. Oltre 90 giorni.
Quando mi sono seduta nel divano di casa mia a Verona alle 19 di sera, mi sembrava di averlo sognato quell'incontro. Che strano effetto mi ha fatto, inimmaginabile.
Non so voi come avete vissuto il lockdown, quanto e come siete usciti, chi avete visto.
Io abito in una città dove di norma non lavoro e dove non conosco che pochissime persone. Tutti i miei affetti sono lontani almeno 90 chilometri. Almeno.
Mi sono chiusa in casa il 6 di marzo scorso in quarantena e dopo 7 giorni ho iniziato lo smart working.
Da allora l'unica persona che ho avuto accanto e visto (de visu) è stato Giovanni, la mia metà.
Sono uscita 4 volte per fare la spesa (ci siamo avvicendati). Siamo andati a fare delle passeggiate in mezzo ai colli in solitaria. Se vi dico che abbiamo incontrato massimo sei persone (sconosciute) a volta, so che stenterete a credermi ma è la verità.
Vedere i miei genitori sabato mattina è stato strano.
Non sapevamo come comportarci. Io ho una tutela massima verso di loro e verso mio padre, soprattutto, che ha problemi di cuore.
Io e Giovanni siamo entrati in casa muniti di tutto il necessario: guanti, mascherina, amuchina. Ci siamo guardati in faccia e abbiamo cercato di capire se era cambiato qualcosa: non intendo il capello bianco in più o la ruga: ci siamo guardati per capire la dose di serenità o preoccupazione che ognuno di noi aveva nel cuore.
Abbiamo chiacchierato e parlato alla giusta distanza di sicurezza ma non di animo e cuore.
Ho cercato di farmi vedere in ordine, pettinata, ben vestita (ne avevo anche una gran voglia, a dire il vero). Non so che impressione ho fatto... io mi piacevo.
Poi abbiamo percorso 500 metri a piedi per suonare il campanello di mia sorella con la mascherina addosso. La piccola, Sofia, ha problemi ai polmoni fin da quando era in fasce. Mi sono mossa in punta dei piedi con mille fardelli addosso per non sentirmi in colpa. Ma gli eventi mi hanno preceduto.
Vittoria, la più grande, la prima delle mie due nipoti mi è corsa addosso e mi ha abbracciato forte. Sono rimasta lì in piedi. Ho pensato: che bellezza. Avrei voluto prenderle in braccio e coccolarle come sempre, gliel'ho detto con gli occhi. Chissà se mi hanno inteso.
Al ritorno in auto, lungo una strada noiosa, dritta e con nuove limitazioni di velocità ogni dieci chilometri, mentre calcolavamo i 70 all'ora di andatura media, ci siamo ritrovati stanchi: eravamo emotivamente e fisicamente provati.
Di certo quell'aria sulla faccia, il sole, i 28 gradi del termometro all'ombra non hanno aiutato la ripresa. Ma credo che dopo tre mesi di isolamento e lontananza, questo impasse fisico e mentale sia il guado necessario da passare per il ritorno alla normalità. Anche degli affetti che ora si possono vivere nel raggio dei due metri.
Potrei aver avuto una risposta del corpo diversa, unica; ma ho provato sulla mia pelle l'effetto del distanziamento sociale e familiare. Me lo sono sentito addosso e mi ha fatto di nuovo riflettere sul nostro ritorno a ciò che eravamo, alle nostre abitudini e anche alle emozioni.