27 dicembre 2019

Romantico Natale

In fin dei conti e nonostante tutto, resto una romantica d’altri tempi ed è per questo che il Natale scatena in me un'autentica sensazione di spensieratezza che sconfina (talvolta) in un afflato di gioia senza filtri, come quello che manifesto ogni mattina sulle note delle classiche melodie tintinnanti che da settimane accompagnano i miei tragitti automobilistici.Una gioia che però non è disincantata né falsa, credetemi. Nulla di più lontano, anche perché l'età non lo permetterebbe e, in fin dei conti, detesto la folla stritolante, lo shopping compulsivo dell’ultimo minuto, il tam tam rituale degli auguriforzati via chat e le cartoline animate in formato mail. E poi il Natale porta con sè sempre un po' di tristezza, per le tante ragioni che guardano al nostro passato o aprono un avverso e inevitabile spiraglio nel futuro.
Diciamo che il Natale è una lente che ogni anno adoro indossare per vedere le cose che mi circondano in maniera diversa.
E' un sorriso offerto in più.
Uno sguardo un po' lucido.
Un abbraccio più vero e spontaneo del solito.
Una chiamata a una persona che non sento da un po'.
Ritrovare gli amici veri attorno a un tavolo.
Stare con la famiglia con un piacere diverso.
E' non avere fretta e mettere in primo piano, scordandosi la frenesia quotidiana, le cose importanti.
A Natale ciò che conta davvero diventa così evidente che hai solo voglia di tenertelo stretto... almeno per un giorno.

25 ottobre 2019

UN FIORE D'ACCIAIO

Ho iniziato ad amare la danza guardando la televisione. Ero davvero piccola. Avevo solo quattro anni e mezzo quando sono entrata in quella palestra al Sacro Cuore indossando le mie prime mezze punte. Non ho mai desistito, mai avuto paura di non farcela, mai fatto un passo indietro.
Ho provato a giocare a pallavolo e sono rimasta in panchina pochi mesi. Ho imparato a nuotare solo a 21 anni: ho adorato l’effetto che aveva l’acqua sul mio corpo e quella sensazione di essere ovattata, lontana dal mondo. Ma sono sempre tornata alla sbarra. Anche la palestra non ha mai fatto per me.
Ho danzato fino a 22 anni, senza mai fermarmi neanche un anno pur sapendo che il mio lavoro sarebbe stato un altro. Sono sempre stata in prima fila sul palco, odiavo stare nelle retrovie. Ricordo ancora la sensazione di vuoto dietro le quinte, che effetto faceva non ricordarsi nulla, neanche un passo, e poi entrare accecata dalle luci, davanti a un pubblico al buio e impercettibile e, come per miracolo, eseguire perfettamente una serie di otto dimenticando i conti e abbandonando il corpo alla musica.
Ho trascorso otto anni fuori dalla sala da ballo. Guadavo le locandine degli spettacoli, gli orari dei corsi di danza appiccicati alle vetrine come la piccola fiammiferaia la notte di Natale, quando fuori, al freddo, scruta da dietro le tende le famiglie felici. A trent’anni ho ripreso il coraggio e mi sono riscritta ad un corso di moderna per tornare al classico appena dopo un anno. Sono ripartita con un corpo diverso, più rigido, adulto e con tre tamponamenti alle spalle: un collo malandato, una schiena da ufficio. Passo dopo passo, ho recuperato una dimensione che non poteva essere quella di quando avevo 16 anni ma la soddisfazione nel portare a casa una doppia piroette o una diagonale complessa è stata impagabile.
Non ho più danzato per saggi, spettacoli, per dimostrare. Ho iniziato a danzare per me stessa, perché il mio corpo e la mia mente me lo chiedevano. Il recupero è stato lento e il lavoro mi ha portato a mollare di nuovo, due anni fa. Sono ritornata alla sbarra quest’anno, il 1 di ottobre, rivedendo allo specchio un corpo ancora diverso.
La difficoltà nel riprendere ogni volta è la stessa: è fatica vera, anche mentale. I dolori si sentono ovunque: dita, caviglie, polpacci. Ci si rende conto di avere dei muscoli che nemmeno si immaginava esistessero. Ma in quelle due ore di lavoro sul proprio corpo, a ripetere con convinzione, tenacia e sudore sempre lo stesso esercizio c’è la massima espressione di una scuola di vita di cui, è ormai ovvio, non riesco a stare senza. Neanche a 41 anni.
La danza è concentrazione. La danza è ricerca di equilibrio. E’ un lavoro millimetrico sui dettagli. E’ dinamica e mai forza. E’ eleganza e portamento. E’ lo sguardo al pubblico e un sorriso che mai svela la fatica. La danza è la dimostrazione che per raggiungere un risultato serve un lavoro lungo, quotidiano, incessante e completo che non deve trascurare nemmeno l'altezza dello sguardo. La meta si raggiunge millimetro dopo millimetro. Ma richiede predisposizione, pazienza e grande conoscenza di sé. Anche dei propri limiti per capire come superarli…

3 ottobre 2019

Senza filtro.

Ho perso ogni tipo di filtro. Ascolto, medito, penso. Poi non riesco più a tenere a freno la lingua. Sento banalità di ogni genere. Ingurgito schifezze. Respiro aria malata. Ma ora devo governarmi prima di pronunciare l'irreparabile, perché mi conosco da oltre 40 anni e non ho mai voluto subire. Non ho mai voluto tacere. Non ho mai voluto sopportare. Non ho mai voluto obbedire. La nuda verità è diventata così palese che, per assurdo, deve essere ignorata per poter sopravvivere. Eppure, ho troppa stima di me stessa (e oramai di poche persone intorno) per permettermi di diventare una come tante, assimilata alla massa che rema con forza e falso entusiasmo nella direzione dello schianto. Purtroppo, l'effetto domino e il combinato disposto di una serie di azioni subite senza essere riuscita minimamente a governarne la rotta (d'altronde chi sono io per poter pensare di poter anche solo dare un consiglio) stanno riducendo il mio prezioso sonno. Basta una parola mal messa per aggiungere pensieri alla mia mente già affollata. Ieri mi sono guardata allo specchio e mi sono rivista, di nuovo dopo appena un anno, più stanca e invecchiata. Dodici mesi fa fa stavo soffocando e sono scappata. Odio avere l'acqua alla gola.

30 luglio 2019

Tanti auguri a me.


Proprio in questi giorni, un anno fa, rivoluzionai la mia vita prendendo una decisione importante. La scelta è arrivata dopo alcune notti insonni di pensieri e paure.
Quando le porte dell’ascensore si sono chiuse dietro di me alle dieci di sera, mi sono guardata allo specchio magra e stanca, con quelle due borse piene di ritagli di giornale e blocchi zeppi di appunti: tutto il mio lavoro, ciò che ero stata era lì davanti a me; e io ho pianto senza alcun freno.
Non me ne vergogno: le lacrime sono scese silenziose, lente e consapevoli.
Non fu uno sfogo, solo tristezza.
Un anno fa, a 40 anni appena compiuti, ho lasciato il mio posto di redattore in uno dei gruppi più importanti dell’editoria e sono saltata con un balzo dall’altra parte della scrivania.
Qualcuno ha capito. Altri no.
La mia mente, che ben aveva scrutato oltre il naso, mi diceva che era la scelta giusta. Il mio cuore aveva qualche remora e alcuni dubbi.
Il giornalismo è prima di tutto una passione. Difficile spegnerla.
Oggi non ho rimpianti per quella scelta perché, nonostante il cambio, mi sento ancora una giornalista. Lo sono nel fiuto. Nell’approccio alle cose. Nella visione.
Mi mancano molti aspetti del mio vecchio lavoro tra cui la creatività della parola che si stende sul foglio bianco al ritmo del picchiettar della tastiera. Incredibile a dirsi ma il mio pensiero si forma ancora battendo i tasti neri del pc: ed è questa cadenza a dettare la durata delle frasi.
Eppure non ho mai imparato così tanto come in quest’anno.
Assumere questo ruolo, quello di capo ufficio stampa, è stata prima di tutto una fatica fisica legata ai nuovi orari.
La mia giornata ora inizia operativamente alle 6.20, prima mi svegliavo presto solo per non mandare all’aria la mia vita personale. Mi sono riappropriata dei weekend (quasi tutti) ma ho livelli di stress diverso. Ho imparato cosa significhi lavorare in azienda. Il valore del team, il lavoro nascosto dove la tua firma non appare né risulta, perché il tuo contributo va “sacrificato” (ça va sans dire) per un bene più grande: quello dell’azienda.
Ho imparato (finalmente) che esiste il merito e che esso viene premiato.
Ho imparato. Punto.
Mi sono rimessa a studiare e oggi ho a disposizione almeno quattro volte il volume delle informazioni finanziarie che avevo lo scorso anno. Ma non solo: esse sono più profonde e analitiche di ogni sguardo giornalistico. Lavoro con persone che mi stanno dando tanto. E più mi “danno”… più gli sto a fianco. Le mie relazioni esterne hanno perimetri diversi e più ampi. Io sono di una maturità diversa. Non solo perché compio 41 anni, oggi. Ma perché, per fortuna, la vita mi ha dato l’occasione di cambiare.
 E io non ho avuto paura.

17 luglio 2019

I ventilatori a terra, le luci di Natale e un ragazzo di nome D. Il mio fumoso salto nel passato

D. ha 23 anni. E' stato in carcere per rapina a mano armata. D. è un rapper. D. ha la pelle nera e i denti bianchissimi. D. usa il passato remoto quando parla nella nostra lingua. D. guarda dritto negli occhi. D. ha deciso che vuole cambiare vita e ha trovato come farlo: grazie a Spotify.
La mia serata inizia senza D. nel ricordo dei bei tempi andati in una città dove bazzico sempre meno. Il mio Traguardo nel passato è un vino geograficamente vicino alla mio nuovo baricentro domestico. Un Soave, un cestino di patatine poco croccanti e l'attesa di un vecchio collega.
Io so perché gli ho detto di sì. Perché ho accettato questa serata che nulla aveva del rendez vous ma è fin da subito stato evidente che era semplicemente lavoro. E' che quello del giornalista non è mai un lavoro, perfino quando lo fai fino alle undici passate di sera, esso ti scivola via dall'orologio impregnandoti l'anima che neanche te ne accorgi. Almeno finché non chiudi la porta e inizi a pensare e scrivere tutto quello che hai ascoltato. A trovare un ordine semantico e sintattico per sciorinare il pensiero.
Quando sono entrata ho visto solo i ventilatori a terra e le luci di Natale. Il producer sembrava un portoricano di sobborgo. D. un ragazzo come tanti: magro, ben vestito, pieno di cose dentro, nero.
La sua storia mi travolge e resto praticamente attonita. Credo a tutto quello che ci dice tranne al fatto che ora ha trovato un lavoro raccomandabile.
D. ha spacciato da quando aveva 13 anni. Quando ci racconta che il suo guadagno minimo era di mille euro a settimana, io balzo dalla sedia e penso immediatamente a quanta fatica ho fatto, nella mia gavetta giornalistica, ad arrivare a 1.500 al mese.
D. voleva essere ricco ma si vergognava di quei soldi perché la famiglia non sapeva. Il frigo vuoto, l'emarginazione, la rabbia, "io non sono come loro", le sue parole sono piene di cliché, eppure messe il sul tavolo, dette senza retorica a muso duro, sembrano diverse. Sembrano più vere.
Alla rapina D. ci arriva perché si sente invincibile e vuole guadagnare sempre di più. Bottino 60 mila. Ne trova 15 mila, li nasconde sotto la giacca. Il suo palo è fuggito e lui decide di prendere il bus per tornare a casa. Ma l'allarme è stato lanciato, i carabinieri lo vedono, lui corre, loro sparano in alto poi lo puntano.
Per la prima volta D. pensa alla sua vita: ma non dice di aver avuto paura. La sua risposta è: "non valeva la pena morire per 15 mila euro".
La frase mi si stampa addosso. Non ha emozione alcuna. E' evidenza. Matematica. Ragione.
Con le manette addosso D. fa il suo esame di coscienza. Decide che quando esce non torna nel giro. Stento a crederci quando mi dice che dentro in carcere ci è rimasto solo 7 giorni. Sette giorni con persone "buone". Questo l'aggettivo di D. per i suoi compagni di cella. Molti sono suoi amici.
Poi un anno ai domiciliari con gli orari. L'incontro col 26 enne producer che non ho ben capito se è bravo o no ma almeno con D. ci ha voluto provare senza rapinargli le tasche.
Ora il primo album di D. è su Spotify. Tornando in auto sento la prima canzone. Capisco poco il testo in inglese, non adoro il genere. Ma D. mi si è cucito addosso fino al cuscino, è ritornato il giorno dopo e vive ancora adesso in queste righe.
Forse quella di D. è una storia che mai avrei scritto quando ero giornalista. Chissà se guadagna più un ragazzo così con qualche bit rappato su Spotify o un neo autore che pubblica un ebook per kindle. La tecnologia ha reso tutto più semplice. D. non farà live, concerti. Per farsi conoscere non ne ha bisogno, ma quanto durerà D. nella memoria delle persone? Per la sua musica, ça va sans dire, non per la sua storia che oggi, per queste poche righe, vale molto di più.

3 luglio 2019

Pont de ferr

Un bicchiere di vino sul terrazzo. Un collega fuori di testa che divora una ciotola di olive in un batter di ciglia. Mezz'ora prima eri lì, in uno dei più lussuosi hotel di Milano, a chattare sul terrazzo con il Brasile. Perfino il cellulare odorava di salsedine. Il tuo naso respirava la Clarins agli agrumi gentilmente offerta dal quattro stelle resort nelle sue toilette. E tu ne hai fatto buon uso in una giornata dove il termometro continuava a segnare 37 gradi a prescindere dalle lancette dell'orologio. Non avevi alcuna avvisaglia di come sarebbe terminata la serata. A messaggiare alle una passate di notte, piena di bollicine, un uomo che non ha avuto filtri velando le sue guance di acqua salata. Quel dolore, regalato con la verità del vino, ti è entrato fino in fondo allo stomaco e te lo sei assorbito e portato a casa con quel retrogusto dolce amaro di essere stata, anche solo per una sera, una confidente. Forse un'amica inaspettata. Forse, come ha detto lui, lo specchio con cui è riuscito a parlare a se stesso.

14 aprile 2019

Le nostre serate scazzo

Da sempre è stato così. Basta guardarsi negli occhi per capirsi e allineare l'intento.
Di norma accade bevendo il primo bicchiere di vino. Diciamo quasi a metà del primo bicchiere. Nell'aria già si sente l'odore del secondo in arrivo anche se non hai ancora pronunciato le parole: "un altro grazie". E' come una miccia: l'insostenibile voglia che quella serata non abbia mai fine.
Noi le chiamiamo le nostre "serate scazzo". Sono quelle in cui non sai mai come va a finire. Non si decide nulla, si pensa e agisce sul momento. Tre bicchieri, solo due? Si cammina, si cena seduti sui gradini, si fanno chilometri in auto, si va a scoprire un nuovo quartiere. "Googliamo i ristoranti in zona". "Prendiamo l'auto e vediamo dove ci porta". "Andiamo giù di qui e vediamo se c'è qualche locale che ci piace". "Che ne dici di non cenare?". Questa è la nostra preferita, perché sappiamo già cosa significa: si va alla ricerca di un super aperitivo rinforzato e poi, immancabilmente, si mangia un gelato. L'abbiamo fatto in qualunque città abbiamo abitato, vissuto, sostato per qualche tempo. La nostra bellezza è che sono 12 anni che andiamo avanti così. E, amore mio, sappilo: sono state le serate più belle mai trascorse. Ricordo ancora quella notte che si tornava da una di queste serate strane, la luna era piena e alta, il cielo scuro ma limpido e te guidavi. Ci siamo guardati e abbiamo pensato di non scendere più dall'auto e non tornare più a casa. Con più coraggio chissà dove saremmo adesso.

4 aprile 2019

Con i piedi fermi per terra e lo sguardo rivolto al futuro.

Lo ammetto: adesso sento la stanchezza delle membra. E' una stanchezza che mi oscura il volto, appiattisce lo sguardo, condiziona l'umore e i colori del mio vestire.
Ho respirato tensione. Ho assorbito stress. Ho annusato il sangue non sparso delle battaglie legali.
Ho fatto di tutto perché il fardello non influisse. Non avesse effetti, non venisse somatizzato. Yoga. Aria. Verde. Respiro. Ma ora sono stanca. E per dovere con me stessa lo devo ammettere.
Le cose non sono andate come volevo. Impossibile governare e programmare gli eventi, da tanto non lo facevo più. Ho lasciato che la nuova vita scorresse con il suo nuovo ritmo. Ma sarebbe stato stupendo se l'ultimo mese fosse stato diverso da quello vissuto. Sarebbe stupendo se i prossimi mesi saranno migliori di quelli che ora posso solo immaginare.

25 marzo 2019

Acqua e aceto di mele.

Iniziare la giornata, completamente a digiuno, bevendo un bicchiere di acqua e aceto di mele.
Chi l'avrebbe mai detto, eppure accade da due giorni.
All'inizio il sapore non è granché ma al terzo bicchiere ti sei già abituata.
L'odore invade la pelle e ti sembra di vivere costantemente immersa in un'insalata.
Tutto è iniziato guardandomi allo specchio. Quella lieve sottile pellicola a buccia d'arancia sulle cosce, davanti e dietro. La consapevolezza di averne 40 compiuti. Di anni. L'aver chiaro in mente che nulla sarà veramente risolutivo, nonostante le iniezioni di carbossiterapia, qualche spalmata poco costante di Somatoline, bicchieroni compulsivi di the verde e l'intenzione di una pratica Yoga (con squat allegati) ancora più incessante.
Quindi cosa fai? Inizi a Googlare frasi sparse con molto senso come "buccia d'arancia rimedi naturali".
Sai che non devi bere alcol, sai che devi ingurgitare due litri d'acqua, sai che non devi mangiare tutto quello che ti viene in mente, specie se sei sotto paturnie, un po' stressata o stanca. Ma pesi solo 49 chili e devi trovare un compromesso. Così provi di tutto. Anche l'acqua e aceto di mele che ti spalmi sulle gambe perfino prima di andare a letto, creando un mix inusuale con la crema o l'olio balsamico.
Dicono che bastino solo 15 giorni. Poi stop per due settimane, quindi si riprende il ciclo.
Ho gli occhi fissi al calendario e la voglia di essere, a 40 anni, super come quando ne avevo 20. Manca poco. Me lo sento.

19 febbraio 2019

Rosso vernice

Sono finalmente tornata a leggere un romanzo. Non lo facevo da mesi. Ma finalmente sento che quella linfa mi sta rientrando in circolo. E' la linfa delle parole e del racconto. L'ho fatta tacere perché pensavo mi servisse altro: linguaggio tecnico, scienza numerica, sobrietà british. Ho analizzato bilanci, numeri, ascoltato documentari finanziari in inglese. Ho cercato, come sempre faccio e spesso senza mezze misure, di immergermi nel mio nuovo mondo per sentirmi all'altezza. Di me stessa prima di tutto, dopo il doppio salto carpiato con il trampolino a 10 metri. Non impossibile, ma serve una discreta dose di coraggio. Lo devo riconoscere.
Ma in parte ho sbagliato. Ho pensato che rinnegare quella che ero, la letterata, la scrittrice, una donna di emozioni e sentimenti, fosse il miglior compromesso per entrare in sintonia con il nuovo universo lavorativo. Non è vero e per fortuna me ne sono accorta in tempo per riacciuffare quello che di me hanno sempre tutti apprezzato, qualcuno amato. Io sono questa: mi scorrono le parole nelle dita, adoro il picchiettio dei tasti, mi immergo nelle vite raccontate nei libri, entro in empatia con le persone perché voglio vivere le loro storie ed emozioni per farle mie e poi chiuderle in scrigni preziosi. La mia vita per fortuna ha ancora bisogno di sentimenti ed emozioni. Tocca a me portarle nel mio nuovo lavoro e farle crescere con la consapevolezza che sono fondamentali nei rapporti umani e nelle relazioni.