14 dicembre 2020

Una romantica malinconia in un universo sconquassato

Scrivere unisce due gioie, diceva Pavese, parlare da solo e parlare alla folla. Ed è così che ho sempre inteso l’arte liberatoria della parola scritta, quella che ho scelto (talvolta) di condividere con voi su questa pagina virtuale sperando di non annoiarvi e non appesantirvi con i miei moti d'animo ondosi. 

In questi giorni mi sono trovata spesso a riflettere sul senso di stanchezza. Mentale più che fisica. Ho ragionato sul passare dei giorni, sui limiti e sulle possibilità del nostro vivere odierno. Sul groviglio di emozioni che provo, talmente tante e in conflitto tra loro, da non riuscire a snodarsi e fluire consapevolmente né, qualche volta, a trovare una qualche espressione esteriore. Tristezza, rabbia, remissione, debolezza, impotenza, paura. Stanno cedendo anche i miei forti filtri razionali e me ne accorgo quando spengo gli schermi e vedo davvero me stessa. Senza ruoli, senza maschere, senza funzioni. 

Sono una delle tante persone che sta cercando un senso all’oggi e indaga sul domani. 

Si fa domande. Pensa. Sogna. Sperimenta. Cerca. 

Ho sempre sostenuto che la condizione emotiva dell’animo curioso e pensante, sia la malinconia. In passato lo chiamavano umor nero perché se esso prevaleva sugli altri umori del corpo, si sognavano cose paurose e tristi. Personalmente intendo la malinconia nel senso romantico del termine, come uno stato di inquietudine, ‘un intimo dispiacere per un desiderio non appagato’, il senso della noia, un ricordo che rende tristi. Non ho mai temuto la noia, se essa è un'occasione di riposo, e nel tempo ho imparato a gestire positivamente la tristezza, una condizione dell’animo che spesso mi permette di vivere più consapevolmente. La tristezza è come una giornata di pioggia, fa parte dell'ordine delle cose, sai che prima o poi arriverà e potrà durare una mezz'ora, una mezza giornata, due-tre giorni ma poi passa e torna il sole. 

Ma il tema che si presenta alle mie viscere oggi è un altro ed è la sensazione malinconica del mio/nostro nuovo essere in questo mondo e di come ci si possa ri-posizionare con un nuovo e prezioso significato in questo universo sconquassato. 

L'attesa di questo nuovo domani è più lunga del previsto ed è spossante. 

Se nel primo lockdown ci siamo dati una vera occasione di stop e riposo da un cortocircuito inceppato, ora siamo dentro una prova di resistenza umana ed emotiva alla costante ricerca di appigli per non perdere il senso del vivere che, tornando al concetto di malinconia, si nutre oggi di desideri non appagati (pensate al viaggiare nel mondo per esempio), di ricordi tristi (le persone care perse o lontane) e di noia (intere giornate a casa in regioni rosse, arancio o per decreto). Spogliati di tutto il superfluo che ora vediamo così evidentemente vacuo, spogliati dei vestiti eleganti, dei gioielli pesanti, della socialità effimera e riempi tempo ma anche delle buone relazioni e della scoperta del nuovo che può avvenire attraverso un viaggio all'estero, un incontro sul lavoro, una chiacchiera con uno sconosciuto su un treno, siamo rimasti “solo” noi e quello che siamo/valiamo dietro uno schermo in funzione di uno spazio casalingo che condividiamo con la nostra metà, i figli, una famiglia qualunque forma essa abbia. E' in questa intimità che sta la nostra vera forza oggi ma non possiamo chiuderla qui. E' una trincea calda e difensiva, la migliore a nostra disposizione ma il mondo vero resta fuori e, anche se soffre e ora ci è proibito, è lì che torneremo.

18 novembre 2020

Una piccola Gufetta mascherata

Eh sì, sono diventata una Pigiamina, anzi una Pigiamax.
La maschera ce l'ho e se c'è freddo, grazie al plaid, ho pure il mantello.
Lei si chiama Gufetta. 
Il nome mi sta simpatico, quindi ho deciso di ironizzarci su un po'.
Scruto, osservo, un po' invidio e un po' no, quelle donne che lavorano da casa ormai da mesi e si presentano ogni giorno in video con i capelli appena usciti dal tiraggio a spazzola della parrucchiera, le camicie bianche di seta che richiedono lavaggi a secco, unghie rosse perfette che pigiano le lettere nere delle tastiere e secondo me qualcuna, sotto la tavola da pranzo, la simil-scrivania di legno in sala con una bellissima libreria Ikea alle spalle, ha pure i tacchi a spillo. 
Io a casa mia cerco la libertà e il comfort. 
A volte immagino la faccia delle persone davanti a me in una riunione vera, fisica: se mi avessero di fronte, vestita come sono ora in smart working, mi prenderebbero sul serio?

16 novembre 2020

Ironia della sorte e realtà

Ironia della sorte e realtà. Un anno fa, dopo settimane di viaggi e cambi di città, di chilometri percorsi in auto, valigie sempre aperte a disposizione e rincorse ai treni in stazione, nell'unico giorno di pausa afferravo plaid e divano, indossavo ciabatte e una comoda tuta e mi chiudevo in casa per ricaricare le batterie. E invece oggi, dopo settimane di lavoro da casa compulsivo e senza orari, senza tacchi e senza orpelli, nell'unico giorno di ferie che mi sono regalata per staccare dalla tecnologia e da ogni schermo luminoso, mi sono truccata, pettinata e vestita "a modino" e sono uscita all'aria aperta in giro tutto il giorno, dimenticandomi di avere due cellulari, un pc, un ipad, un laptop...

6 novembre 2020

Cambiare ... in punta di piedi

 

Questo è un acquerello che mi hanno regalato molti anni fa. Si intitola "CAMBIAMENTO". E' un piccolo cartoncino di carta, un vecchio biglietto augurale, che ho scelto di incorniciare e portare con me in ogni trasloco. Oggi è lì, attaccato alla parete del corridoio. In questi giorni mi sono ricordata il motivo per cui l'ho conservato, dandogli la dignità di un quadro.

L'immagine è inquietante: la donna che si spoglia di una veste bianca ha il volto piatto. Non trasuda alcuna emozione se non quella di smarrimento, quasi atterrito, dipinto in due occhi grandi, spalancati e lontani. 

Lo sfondo è nero. I piedi sono storti. Nulla è rassicurante.

Ma bisogna addentrarsi nell'immagine e scrutarne i dettagli per capire. Ecco, già al tempo furono proprio loro a colpirmi: il colore del vestito sottostante rosso fuoco, l'unica nota di colore di tutto l'insieme ma anche i talloni alzati quasi a volersi elevare, andare più sù.. e chi fa danza come me, sa che ogni relevé richiede la ricerca di un nuovo baricentro ed equilibrio. 

Stare sulle mezze punte è fatica, anche fisica ma è anche un modo per elevarsi e raggiungere una nuova dimensione di eleganza, aumentare le possibilità di movimento e compiere passi e salti che diversamente sarebbe difficile fare... il che spiega perché nel classico si balla in punta dei piedi. 

Questo acquerello dice tutto questo. Io ci leggo questo. Ma ognuno può avere una diversa interpretazione. Forse quello che io vedo è il significato profondo che attribuisco alla parola cambiamento. 

Cambiare è la cosa più complessa che si possa chiedere a un essere umano, a un'organizzazione, a un sistema economico o sociale. I tempi del cambiamento sono lenti, graduali e hanno molte fasi di assestamento, talvolta anche di ritorno o remissione. Ma io credo che non possiamo nasconderci dietro gli schermi dei nostri monitor, con le telecamere chiuse e non metterci in gioco anche in questo terribile momento.

Cambieremo dopo il Covid? Sì. Ma stiamo già cambiando: qualcuno se n'è accorto, altri no. Qualcuno crede torneremo allo status quo ante, altri (pochi) stanno accelerando su nuovi futuri. Non è solo consumismo (come e dove compreremo e se compreremo) non è solo una diversa modalità di lavoro (2-3 giorni a casa, più flessibilità), un nuovo modo di produrre (filiere più corte, più sostenibile) o un nuovo modo di relazionarsi (sempre più virtuale e meno "umano"). 

Il Covid, in quell'acquerello, è lo sfondo nero attorno a ognuno di noi. Ci stiamo togliendo un vestito, alzando le mani al cielo con i piedi contorti... forse non tutti avremo un nuovo "dress code" da mostrare per urlare al mondo chi siamo diventati... ma io lo sto già cercando.

27 ottobre 2020

Essere fragili.

Ci ho messo un po' a riconoscere l'origine della malinconia e anche dell'inquietudine che adombrano da ieri le mie giornate. Non è l'autunno, i cui colori e odori, stranamente caldi, sono un toccasana per gli occhi e la mente. Non è la temperatura che, comunque, sfiora i 19 gradi nelle ore centrali della giornata. Non è il cambio d'ora che ha allungato i miei sonni profondi ma inquieti. Né quella sottile umidità che ancora non riesce a pesare come un macigno sulle ossa. 

Non è nulla che ha a che fare con ciò che ci circonda e mi attornia. E' la nuova prospettiva che si è insinuata nel cuore più che nei neuroni attenti ai Tg e all'informazione totalizzante. 

Nulla sembra essere fisicamente cambiato dall'altro giorno ma non è così. L'estate italiana è stata una boccata d'aria affollata e pura: un desiderato ritorno alla normalità della nostra vita sociale più che personale. Abbiamo respirato i profumi dei cibi ai ristoranti, le nuove stoffe nei negozi, il damasco dei teatri, la moquette dei vecchi cinema, l'asfalto a bordo di una bici o seduti a un tavolino in mezzo alla gente, con la maschera di tessuto in tasca, le mani vischiose e quel senso di "finalmente" tutto è apposto. Abbiamo assaporato, complici le vacanze, la bontà del giusto mezzo: un equilibrio inaspettato tra la vita che ci ricordavamo e il nuovo mood di semplicità imposto dal covid e dai mesi di lockdown.

A settembre ci siamo imbizzarriti, saltando su due piedi spaventati da un topolino. Abbiamo stra-fatto sperando che i raggi Uva e Uvb di una lunga estate potessero sconfiggere il covid ancora per un po'. Abbiamo sognato a occhi chiusi, scodinzolando qua e là, su e giù, a destra e a manca; ma ora quel virus ci ha riaperto entrambi i fanali sull'inevitabile. Abbiamo vissuto una bolla di incoscienza e forse di non curanza, nel senso che non ci volevamo porre il problema... fin quando non ci abbiamo sbattuto la faccia.

Ecco qua: ci abbiamo sbattuto e siamo balzati all'indietro con un solo salto. Lo sappiamo tutti, ce lo sentiamo dentro, nel profondo: torneremo con l'animo a come ci sentivamo a marzo. Anzi no, ad aprile. perché a marzo era tutto nuovo, inaspettato e incomprensibile, mentre ad aprile avevamo capito. Ma forse sarà peggio. Ora non siamo in lockdown, viviamo una nuova epoca, quella del: "vivamente sconsigliato", "severamente raccomandato" .. ma da qui al divieto è un attimo. Si accavallano nella mente le storie dell'estetista che ha chiuso, del titolare dell'agenzia di viaggi in fallimento, della consulente HR a partita Iva a casa senza clienti, del proprietario della piccola palestra in affanno in cerca di un possibile futuro sostenibile. Non sono le notizie che vedo/sento in tv e che so a volte, essere forzate, costruite a tesi. Sono amici e conoscenti. Sono veri. Sono vicini. Sono reali.

Sono malinconica perché, anche se mi sforzo di trovare qualcosa di positivo in questo ritorno a una dimensione privata e casalinga - anche se oramai mi è chiaro che non è né sarà lenta né sostenibile - temo per il nostro futuro. Temo per la salute mia e della mia famiglia. E temo anche per la tenuta di questo complicato sistema alle prese con un secondo round più difficile del primo; perché la catena delle disgrazie e l'effetto sociale anche di una sola chiusura, di un fallimento, di un "stacco la spina" sarà maggiore rispetto alla primavera. 

Sappiamo dunque tutti cosa ci aspetta. E spero di non doverlo affrontare ma mi sento fragile e colpibile. Mi sento senza difese se non quella dell'isolamento. Ma quando mai isolarsi e non avere contatti, legami, scambi è stato il modo corretto per affrontare il mondo con tutte le sue drammatiche sfumature, contraddizioni e paure? 


14 ottobre 2020

Il profumo del tempo perduto

Le ho intravviste in un angolo nascosto del negozio e non ho potuto farne a meno. Le ho comprate. Oggi la cucina profuma di patate dolci o, come le chiamavi te, patate americane. 

Mentre ne mangiavo una con un cucchiaino, ancora calda e bollente, appena sollevata dall'acqua di bollitura sono tornata indietro di oltre 35 anni a quelle giornate dove tutto sapeva di semplicità. A quei sapori autentici e perduti con cui sono cresciuta grazie a te. 

Il pane ripieno di burro e zucchero. La torta di fecola. Il caffè filtrato e riscaldato sopra la stufa. Le castagne lessate di cui non si riusciva a togliere la buccia e le favoine che tutti chiamano lupini, con un po' di sale sopra. L'arrotolato di patate e spinaci che servivi col sugo e che facevi solo te. I ghiacciolini colorati alla fanta con gli stecchini nel porta ghiaccio del freezer. Gli schioppetti, che per gli altri sono popcorn, con le pannocchie vere che noi sgranavamo per tenerci impegnate. Il brodo con tutte le sue frattaglie, alcune orride solo agli occhi ma quanto mi piaceva il riso coi durelli di pollo. E poi le patate americane che diventavano una torta, in quell'unico tegame di metallo, che sfidava a bontà la pinza onta con i ciccioli. 

Questa eri tu, nonna. E oggi, con questo odore buono in cucina, sono ritornata a quei giorni, in cui bastava una bici scassata per girare attorno alla casa, una paletta per giocare in giardino, un cagnolino abbandonato per condividere le coccole e qualche fiaba sui generis inventata sul momento per aprire mondi magici prima di un sonno che sempre tardava a venire. 

28 settembre 2020

Ctrl+alt+canc

Settembre è il mese della ripartenza. Del riavvio.
Riapre la scuola, si chiudono le valigie nell'armadio e la bici in garage. Ci si rifà qualche tessera, un nuovo abbonamento. Un diverso e più quieto look. 
Perfino l'orologio si appresta a muovere le sue lancette mangiando tempo mentre il lino cede alla lana e aumentano i gradi del cibo sul piatto e sulla pelle. Pronti a rimettersi in coda per andare in ogni dove, con l'ombrello a portata di mano e una sciarpa in borsa.
Accade tutto velocemente, in fretta. Anche il nostro corpo fatica ad abituarsi, a partire dai piedi nostalgicamente infreddoliti e ghiacci ma  con addosso (ancora) le infradito.
E così riparte anche il lavoro. A mille. 
Come un computer inceppato, dopo un ctrl-alt-canc digitato in malo modo sbuffando, lo schermo riacquista la sua luce e in un sol colpo si riaprono tutte le finestre che avevi lasciato aperto e che, per un sol attimo, si erano bloccate, congelate, freezate come ci ha insegnato il nuovo vocabolario delle videocall quando tutti parlano e qualcuno, per colpa della rete, resta immobile, fisso, disconnesso con una posa plastica da ghiacciolo in freezer.
Eppure questo settembre è ripartito più veloce del solito. Ma non è colpa del calendario che segue ritmi codificati e atavici. Dopo mesi di clausura (ops lockdown) e dopo lo sfogo estivo quasi liberatorio, sicuramente disordinato, siamo oggi tesi tra due forze centrifughe che ci rimandano a due opposte pulsioni che tuttavia generano lo stesso effetto: fare e correre. Correre e fare.
Vogliamo guadagnare il tempo perduto dopo mesi di pigiama party e video esasperanti, riprenderci il peso delle relazioni umane, riallacciarci alla vita aziendale e alle sue informazioni stanchi di essere fuori da tutto, tranne che dal nostro mondo.
E vogliamo il carpe diem: accelerare ora, subito, adesso. Fare tutto il possibile nel meno tempo possibile perché fra un mese potrebbero rinchiuderci in casa e allora... sappiamo già cosa ci aspetta perché lo abbiamo sperimentato.
E cosi questo settembre sposa l'atavica propulsione italiana al rimbocco di maniche post sollazzo agostano, mese dove di consuetudine questo Paese (intero) si blocca, al nuovo senso di recupero sociale post e pre-lockdown. Con l'effetto di essere più stanchi di sempre. Perché a questi ritmi (non operativi) ma fisici, a questo trantràn di saliscendi da città, treni, aerei, a questo traffico, ai clacson ... ci eravamo anche disabituati.



24 settembre 2020

Sfumano le lentiggini dal viso

E' arrivato il primo freddo, che in realtà è solo una diversa gradazione dell'aria, ma il corpo già si sta abituando a nuovi pesi, nuovi cibi, diverse abitudini e ritmi. Sfumano le lentiggini dal viso e pian piano ritorna il candore dopo i deboli rossi estivi. La pancia sente il bisogno di caldo, le gambe di un plaid morbido sul divano. Si ripongono i sandali e le infradito, la pelle nuda si sente a disagio senza una copertura velata. Si sciolgono nuovamente i capelli, le grucce dell'armadio cambiano tavolozza tra il sapore del mosto e l'odore delle castagne sul fuoco, bruciacchiate sul listone a tarda notte. Il giallo fluo si rinchiude dentro le ante, il rosso fragola delle labbra cede al rosa tenue della melagrana e anche le unghie mutano la loro veste accesa. Sfioriscono i luccicori dei bijou e le rose, il gelsomino vira sull'arancio; la sera imbrunisce già a tardo pomeriggio, la luce si fa debole, l'aria torna a odorare di vento e i prati di pioggia. Ritorna la nostalgia malinconica di questa stagione che appartiene più a te che a me che sono nata nel torrido luglio, tra i 40 gradi di una valle afosa. Eppure mai come quest'anno, l'autunno mi sembra la stagione perfetta: una via di mezzo tra due estremi, una piccola pausa di transizione capace di rendere questo contingente una piacevole attesa di ciò che verrà.  

18 settembre 2020

Lontano dagli occhi, lontano dal cuore

I social sono diventati un micro buco della serratura con cui spiare, di nascosto, gli angoli delle lontane vicende altrui. 
Quelle che talvolta vorresti non vedere eppure la curiosità ti porta a non staccare mai gli occhi. 
E così scruti gelosamente alcuni frame scelti e posati. 
Pezzi di un puzzle che non riesci mai a comporre, non nella cornice. La puoi solo immaginare. 
Come immagini gli altri sensi non visibili: l'odore della scena, il rumore di quella voce, il sapore dell'esperienza, dell'aria che circola lì attorno, il peso del clima, il tatto dell'emozione.
Indaghi dietro i sorrisi veri, quelli tirati e quelli finti. 
Cerchi le crepe dietro i restyling di luce e gli effetti dei lifting. 
Setacci il buono dal cattivo. 
Commenti con il pensiero. 
E alla fine trattieni i polpastrelli e velocemente passi altrove... 
... alla storia successiva.

3 settembre 2020

Holidays

Ho cercato il verde e il blu. Le sfumature di smeraldo e tutti i gradi del ceruleo. Il silenzio delle vette. Lo scroscio dell’acqua sui sassi. La fatica della salita, il fiato che si spezza, la brezza in quota. Il sale che resta sulla pelle, i grani di sabbia incollati alle dita. Ho mangiato senza regole o limiti, assaporando i gusti delle diverse latitudini. Ho scelto un libro, l’ho iniziato e finito. Ho dimenticato di avere un cellulare. Ho osservato, ascoltato, sentito, assaporato e vissuto... con te.

5 agosto 2020

Uomini e topi

A te che riemergi dal passato remoto come un Ufo indistinguibile nel cielo. Un lampo improvviso dalle forme incomprensibili, almeno di primo acchito. 
A te che non ti sento-vedo dalla prima media e di cui ricordo i tratti somatici da giovanetto imberbe e il mio batticuore quando ti incrociavo. 
Ti ho letteralmente inseguito e rincorso come primo piccolo grande amore adolescenziale e non mi hai badato che un sottil attimo. Ti guardavo le spalle in quei minuscoli banchi di scuola mentre ti riprendevano a suoni di note sul registro e te canzonavi gli insegnanti. 
Io, prima della classe. Te, bocciato al primo anno.
Ora ti ripresenti dal passato per chiedermi come sto. E io non capisco. 
Poi quella domanda così chiara, immediata, maschile: sei sposata? E il finale senza effetto: e stai bene? 
Sei sparito in un batter di ciglia appena le dita delle mie mani sulla tastiera hanno troncato ogni possibile altra riga di testo con un semplice e spontaneo, perché vero: "benissimo". 
E ora so per certo che non ti risentirò per i prossimi 30 anni perché hai voluto soltanto gettare un'esca e ribadirmi in soli 3 minuti quanto talvolta gli uomini siano fin troppo semplici e stupidi. 
Hai fatto il paio, come si direbbe dalle mie parti, con chi ha inondato per mesi il mio cellulare di chiamate chilometriche per lamentarsi, indugiare, coprire i tempi vuoti e, talvolta, anche insegnare. Quel cellulare non suona da un mese. Quei fiumi di parole si sono asciugati in un giorno qualsiasi, senza un senso né un apparente significato. Forse per dolo o colpa. Non ci è dato sapere. 
Ho chiesto, inseguito e cercato solo per capire. Ma te sei fuggito come un ladro di soppiatto, sparito dai radar senza alcun motto. E ora c'è un silenzio sospeso che neanche la millantata professionalità infrange. 

4 agosto 2020

La gioia di essere tristi

Anche la tristezza ha le sue sfumature. Virano come le giornate, seguono il meteo, l'abbondanza della pioggia e i gradi del termometro. Si declinano nelle stagioni dei libri, nella scelta dei colori e nella forma estetica di vestiti. E' un peso sulle spalle di cui, con il passare degli anni, si può solo alleggerire il carico. 
Il più delle volte è una forma di assenza. La maggior parte è una complessa malinconia: di qualcosa che si aveva e non c'è più, qualcosa che si vorrebbe e non c'è ancora. 
La tristezza è una lunga e impalpabile linea nel tempo senza inizio né fine. E' la scintilla del genio. La musa della scrittura. Il motore delle anime pure, quelle che non hanno paura della gioia di essere tristi. 

21 luglio 2020

Emisferi da equilibrare.

Devi leggere favole.
Anzi, sai cosa dovresti fare? Scrivila te una favola.

14 luglio 2020

Come una ninfea.

Lo riconosco: serve un certo afflato di spirito e una forse innata attitudine al credere alle favole. Un'indole mistica o magari solo un po' zen.
Forse serve essere cresciuti con una mamma psicologa che testò l'ipnosi per partorire. Una mamma che inventava storie incredibili, che ha sempre creduto agli alieni. Una mamma specializzata in esegesi biblica, che gestisce le emozioni altrui e che su questo campo si è pure creata uno spazio lavorativo in questo contorto mondo.
Insomma, chiunque non sia capace di staccare il cervello, chiunque non si riconosca in un sognatore, un mistico, un idealista o semplicemente un alternativo di pensiero non prosegua: non legga queste righe. Perché non troverebbe mai un senso a quello che sto per raccontare.

Ho sempre pensato che il nostro corpo somatizzi tutte le emozioni. Anzi, ne sono certa. A ogni angolo del nostro corpo corrisponde un dolore, un'emozione o un nostro stato d'animo. Nulla è casuale. Io mi conosco da tempo e quasi sempre, quando lo stress diventa acuto, sono due i luoghi fisici dove si concentrano le mie emozioni primarie. Il collo e lo stomaco.
Il collo è indice di pesantezza, responsabilità ma anche rabbia.
Nello stomaco, o meglio nel cuore, e in quella fascia muscolare centrale dove tutto si attorciglia, c'è l'origine di ogni passione. Anche cattiva.
Ciclicamente il mio collo si blocca. E il mio stomaco/cuore si avvita. Si torce su se stesso portandosi dietro i muscoli della colonna vertebrale. Dopo sedute di yoga, fisioterapia, osteopatia, sono assolutamente certa che su di me l'unica terapia che funziona veramente è la cranio-sacrale. Mi bilancia. Mi riassetta. Mi scioglie. Ma lavorare sul corpo senza curare le emozioni dà effetti brevi.  Devi curarti nel profondo.

Sabato mattina ho fatto la prima seduta (cambiando terapista, causa cambio città): erano 3 anni che non andavo. Simbolo che nonostante tutto, per 3 anni non sono poi stata così male.
Finita la terapia, la donna che ha ascoltato e mosso il mio corpo mi ha detto tre cose, senza sapere nulla di me e senza conoscermi. E io sono scoppiata a piangere.
La prima è stata: sei molto stanca.
La seconda: sei piena di rabbia.
La terza: sei straordinariamente e nonostante tutto in equilibrio perché hai fatto un ottimo percorso.

Poi ha argomentato: la stanchezza e la rabbia si sentono, l'equilibrio mi è emerso quando sono arrivata al cuore. Ho visto una immagine bellissima: ho visto un lago melmoso, profondo e scuro, pieno di fango, ma dal fondo di quel lago è emersa una ninfea bellissima che mi ha dato serenità.
Poi il consiglio, cerca il significato della ninfea.
E' un'ottima cosa che tu mi abbia espresso questa immagine di te.


Cit. Il significato della Ninfea

La ninfea è un fiore particolarmente profumato ma la caratteristica che più la contraddistingue è quella di continuare ad uscire dalla melma degli stagni in cui cresce senza sporcare i suoi petali. La ninfea riesce infatti ad aprire i suoi petali e rifiorire senza mai sporcarsi di fango. Questo fa di questo fiore il simbolo della purezza.

13 luglio 2020

Sulla scrittura.

E oggi mi chiedo: qual è il valore della scrittura? Di un'idea.
Che valore ha cogliere da un semplice fatto, da un pensiero, da un'immagine, foto o accadimento una storia? Capire che c'è qualcosa da dire. Intravvederla laddove altri non vedono, perché non osservano. Mi hanno fatto credere che tutto questo non fosse un'abilità. Che fosse semplice, scontato.
"Tutti sanno scrivere", mi hanno ripetuto all'infinito.
Non è vero. In molti sanno gettare su un foglio bianco delle parole che hanno più o meno senso. In pochi sanno costruire un racconto. Pochissimi fanno in modo che quel racconto sia vero, nel senso di autentico. Così autentico da comprendere quel "non detto" che va oltre la scrittura. Per immaginare, disegnare con la mente la situazione o il contesto descritto, solo grazie ai dettagli. Ma anche per capire, perché un altro grande dono della scrittura, che pochi hanno, è la chiarezza.

8 luglio 2020

Delle due, l'una.

scribacchino
/scri·bac·chì·no/
SPREG.
sostantivo maschile

Addetto ai più modesti e spersonalizzati lavori d'ufficio.
Scrittore di modestissime capacità.

6 luglio 2020

La sua musica, quello spartito, le nostre note

Oggi ci ha lasciato Ennio Morricone e io non posso non posare lo sguardo sullo spartito che giace davanti a me in questo momento sul pianoforte. La sua musica. La tua musica. Le nostre note.
Morricone è stato lo Chopin dei nostri tempi. Un uomo discreto e sensibile. Un grande genio che non amava i fasti della fama ma il duro lavoro. Quello in cui ci riconosciamo noi perché ci specchiamo in quegli occhi. Nel guizzo di una vita nostalgica e creativa, fuori dal comune che solo l'arte, in questo caso la musica, può incorniciare come un capolavoro.
Non posso non dimenticare quel giorno quando mi dicesti che avresti voluto lavorare con lui e per lui. Perché pennellare le note delle grandi pellicole del nostro cinema (e non solo) è un privilegio. E la musica italiana del 900 è Morricone. Sergio Leone è Morricone. Il nostro archivio cinematografico mentale accorda a ogni frammento la sua colonna sonora che riecheggia inesorabilmente chiara e vivida anche quando è un semplice fischiettio. Persino quando la nota si accosta a un rumore.
Ogni suo spartito semplice nella composizione eppure sempre memorabile, sempre emotivamente denso, vero e passionale scuote le nostre anime dal profondo e finisce sempre per strapparci un rigo salato dagli occhi.
Abbiamo tutto per non dimenticarci di lui: i film, i cd, i suoi spartiti. Eppure ci mancherà quel suo stare dietro le quinte senza fronzoli né mai sbavature. Con la semplicità di un'andatura non più giovane, il suo sincero saluto alla moglie, il suo modo di parlare: chiaro, conciso, efficace.
Ci mancherà perché nessuno sarà più come lui. E perdendo lui abbiamo perso un altro pezzo di storia: un pezzo di passato che non tornerà. Quel passato che reputiamo meglio del presente per merito, competenza, pregio, sincerità, verità e nessun bisogno di ostentazione.

22 giugno 2020

Come un pesce nell'acquario

L'hanno chiamata sindrome della grotta, la casa come bene rifugio e tana, la nostra difesa dal mondo. Il non volere uscire perché si sta troppo bene chiusi tra le proprie mura, a volte anche da soli ma, in generale, senza ciò che c'è fuori. Senza traffico, senza consumismo, senza caos e rumori, senza gente, senza finzioni.
C'è da stupirsi a pensare come abbiamo vissuto in questi ultimi mesi.
C'è da stupirsi del fatto che siamo pure stati bene privati di tante cose che ci erano familiari, quotidiane, normali. Siamo sopravvissuti senza il calcio, per esempio. Ci siamo vestiti senza mettere i tacchi ai piedi. Siamo riusciti a lavorare senza fare i pendolari, consumando ore di vita per raggiungere gli uffici. Ci siamo allenati senza entrare e usare gli attrezzi della palestra. Siamo sopravvissuti anche senza bere spritz assiepati in un angolo di strada. Mi fermo qui.
Non tutto è oro ciò che luccica, avete ragione.
Ci sono state derive, solitudini divenute isolamenti. Liti e famiglie rotte o un po' sconquassate.
Ma a leggere i giornali in questi giorni mi accorgo che ci sono sempre due facce della stessa medaglia; e ci sono sempre due diversi interessi distanti e distonici nei confronti dello stesso quesito, argomento.
Parliamo dello smart working. Un tema che è entrato nel vivo del dibattito.
C'è chi lo vede, nei termini e nei modi corretti, il progresso e l'appagamento di quello che in termini tecnici viene definito il well-being aziendale, ovvero il benessere legato alla difficile conciliazione di ritmi di vita e di lavoro. E anche una grandissima fonte di risparmio: meno costi per le aziende e pure per i singoli. Ma c'è, di contro, chi lo vede come il mostro nero. C'è chi pensa che chiunque stia a casa non faccia nulla, si sollazzi, prenda il sole, guardi serie Netflix a non finire. Chi pensa che solo seduto su una sedia d'ufficio visibile e controllabile, un essere umano produca. E chi pensa che solo tornando "a come si era prima" risolveremo un po' di problemi.
Quali?
Alla fine si tratta di rispondere a una semplice domanda: cui prodest il ritorno allo status quo e chi ci guadagna invece se il lavoro resta da remoto?
I negozi e i bar del centro sono ovviamente in difficoltà, senza lavoratori che in pausa pranzo staccano buoni pasto e strisciano bancomat. Di contro, i grandi big dell'e-commerce festeggiano perché loro arrivano ovunque, a casa come in ufficio. Anzi, alcuni uffici oggi neanche più hanno il servizio di portineria... quindi meglio il domicilio per la consegna di ogni bene.
Vogliamo parlare delle piattaforme digitali che hanno scalato ogni classifica dell'intrattenimento, della formazione, della connessione senza vincoli oramai di tempo e ore (anche quelle del cartellino timbrato, sia chiaro)?
Persino gli architetti visionari stanno progettando le nostre nuove dimore con nuovi spazi per lo smart working mentre gli immobiliaristi iniziano a fare i conti con progetti di uffici e centri direzionali abbandonati sulla carta o peggio,  con spazi diversi, vuoti, non occupati. Ma poi c'è chi non vede l'ora (concessionarie, benzinai etc) che si torni a fare cassa dai nostri spostamenti convulsi, con le autostrade percorse ai 90 all'ora, zuppe di camion in doppia corsia e con il contachilometri delle nostre povere auto ormai a cinque zeri. Alla faccia della C02 e dell'ambiente.
Est modus in rebus, dicevano i latini. Dobbiamo cercare la giusta misura. Un nuovo equilibrio che prenda il buono di entrambe le facce della stessa medaglia.

Dal canto mio, mai come in questi mesi tutto è stato così cristallino.
Mai come in queste settimane di ritorno alla precedente vita, vissuta ancora (per fortuna) in fugaci flash, mi sono sentita di rifiutare con forza alcuni comportamenti del mio passato.
Sto facendo molta fatica ad ammettere, soprattutto con me stessa, che si sono riposizionate le aspettative sulla base di una nuova qualità della vita.
La verità è che in questa nuova vita ormai ci sguazzo dentro felice come un pesce in un nuovo e grande acquario... il cui unico bisogno è cambiare acqua ogni tanto.

3 giugno 2020

Janis, Norah e B&B

Te ne sei andato in silenzio, senza dirmi nemmeno che eri ammalato. L'ho scoperto quando era già troppo tardi e sei scivolato via senza salutare nessuno, troppo in fretta e con grande dolore. Ogni volta che ascolto una canzone di Norah, Janis o dei tuoi B&B che suonavi alla chitarra, la mia mente viaggia indietro di 18 anni. Solo 12 mesi eppure, hanno significato qualcosa: hai solcato nel profondo delle mie vene alcune gocce della tua vita e del tuo mondo che ancora oggi scorrono in mezzo ad altro sangue, perfettamente coagulate. Non sei stato nient'altro che te stesso sempre, coerente e fedele. Mi hai insegnato a "voler bene" nel vero senso della parola. Mi hai dato la forza di essere libera e di andarmene. Non immagini cosa e quanto mi hai dato. Me lo sono tenuta dentro come un tesoro, senza mai dirtelo, ma forse te l'hai sempre capito, perché sapevi. E ora, ogni tanto, guardo su tra le nuvole: quando in radio passa una delle tue musiche, osservo il cielo, rammento uno dei tanti frammenti che ho fermato nella mia testa e so che te sei ancora lì, a osservare questa mia vita.
E, purtroppo, so anche che cosa mi diresti immediatamente di fare.

11 maggio 2020

La giusta distanza.

"Non troppo lontano da sembrare indifferente, ma nemmeno troppo vicino perché l'emozione talvolta può abbagliare". La giusta distanza, Carlo Mazzacurati

Stordita, stanca, prosciugata, come se avessi fatto un lungo viaggio: un mattone sulla testa, come dopo sei ore di jet lag, e le gambe pesanti come dopo dieci chilometri in salita.
Mi sono sentita così sabato sera di ritorno a casa, dopo un'intera giornata trascorsa fuori nel mio primo squarcio di normalità. Due ore di auto lungo la Transpolesana, un ricco pranzo all'aperto con ogni tipo di carne sul barbecue dai miei genitori, torta (ops. pastiera appena sfornata) e caffè in giardino da mia sorella con l'arduo compito di fare la zia a distanza.
Non li vedevo (fisicamente) dai primi di febbraio. Tre mesi. Oltre 90 giorni.
Quando mi sono seduta nel divano di casa mia a Verona alle 19 di sera, mi sembrava di averlo sognato quell'incontro. Che strano effetto mi ha fatto, inimmaginabile.
Non so voi come avete vissuto il lockdown, quanto e come siete usciti, chi avete visto.
Io abito in una città dove di norma non lavoro e dove non conosco che pochissime persone. Tutti i miei affetti sono lontani almeno 90 chilometri. Almeno.
Mi sono chiusa in casa il 6 di marzo scorso in quarantena e dopo 7 giorni ho iniziato lo smart working.
Da allora l'unica persona che ho avuto accanto e visto (de visu) è stato Giovanni, la mia metà.
Sono uscita 4 volte per fare la spesa (ci siamo avvicendati). Siamo andati a fare delle passeggiate in mezzo ai colli in solitaria. Se vi dico che abbiamo incontrato massimo sei persone (sconosciute) a volta, so che stenterete a credermi ma è la verità.
Vedere i miei genitori sabato mattina è stato strano.
Non sapevamo come comportarci. Io ho una tutela massima verso di loro e verso mio padre, soprattutto, che ha problemi di cuore.
Io e Giovanni siamo entrati in casa muniti di tutto il necessario: guanti, mascherina, amuchina. Ci siamo guardati in faccia e abbiamo cercato di capire se era cambiato qualcosa: non intendo il capello bianco in più o la ruga: ci siamo guardati per capire la dose di serenità o preoccupazione che ognuno di noi aveva nel cuore.
Abbiamo chiacchierato e parlato alla giusta distanza di sicurezza ma non di animo e cuore.
Ho cercato di farmi vedere in ordine, pettinata, ben vestita (ne avevo anche una gran voglia, a dire il vero). Non so che impressione ho fatto... io mi piacevo.
Poi abbiamo percorso 500 metri a piedi per suonare il campanello di mia sorella con la mascherina addosso. La piccola, Sofia, ha problemi ai polmoni fin da quando era in fasce. Mi sono mossa in punta dei piedi con mille fardelli addosso per non sentirmi in colpa. Ma gli eventi mi hanno preceduto.
Vittoria, la più grande, la prima delle mie due nipoti mi è corsa addosso e mi ha abbracciato forte. Sono rimasta lì in piedi. Ho pensato: che bellezza. Avrei voluto prenderle in braccio e coccolarle come sempre, gliel'ho detto con gli occhi. Chissà se mi hanno inteso.
Al ritorno in auto, lungo una strada noiosa, dritta e con nuove limitazioni di velocità ogni dieci chilometri, mentre calcolavamo i 70 all'ora di andatura media, ci siamo ritrovati stanchi: eravamo emotivamente e fisicamente provati.
Di certo quell'aria sulla faccia, il sole, i 28 gradi del termometro all'ombra non hanno aiutato la ripresa. Ma credo che dopo tre mesi di isolamento e lontananza, questo impasse fisico e mentale sia il guado necessario da passare per il ritorno alla normalità. Anche degli affetti che ora si possono vivere nel raggio dei due metri.
Potrei aver avuto una risposta del corpo diversa, unica; ma ho provato sulla mia pelle l'effetto del distanziamento sociale e familiare. Me lo sono sentito addosso e mi ha fatto di nuovo riflettere sul nostro ritorno a ciò che eravamo, alle nostre abitudini e anche alle emozioni.





24 aprile 2020

Il cuore rallenta la testa cammina

C'è un tempo per fare e un tempo per star fermi e riflettere.
Gli antichi erano più saggi di noi, ma al tempo non esistevano il wifi e il cellulare, era un gioco da ragazzi passeggiare tra i colonnati (peripatoi) e dedicarsi alla vita contemplativa, ovvero alla concentrazione filosofica, al pensiero razionale.
Persino 20 anni fa era più semplice staccare la spina, nel vero senso della parola. Si usciva per fare due passi lontano da tutti e il telefono restava lì, attaccato al muro, in casa sopra un mobile. Suonava e non rispondevi, perché non c'eri. Punto. E neanche sapevi, al ritorno, chi ti aveva cercato.
Ora come fai a non "esserci"? Devi negare persino la tua presenza virtuale, facendo leva su tutti i sensi: "non ho sentito", "non ho visto", "non posso, scusa ti richiamo dopo, domani, in un altro momento".

Non è un elogio dei tempi andati. Solo una constatazione che mi porta a una riflessione inficiata da questi giorni di clausura: ci siamo talmente ubriacati di presenza e operosità, sulla scia dell'eterna connessione al mondo, che non riusciamo più a vedere e a dare il giusto valore al tempo.
Se non facciamo, se non agiamo e se non occupiamo ogni minuto o slot di agenda, è come se sprecassimo vita. Cosa ci rende impossibile stare fermi (non solo, intendo, con l'auto parcheggiata in garage) e pensare?

Prima suggestione.
In questi giorni ho ripensato all'esame di filosofia dato all'Università: l'unico, se non consideriamo quello di Estetica che mi è servito per fare numero e perché mi piaceva la parte monografica.
L'esame sostenuto nel lontano 1999 parlava proprio del Concetto di Tempo: da Seneca a Hegel. Lungi da me addentrarmi nei meandri di una discussione di cui ricordo poco o nulla. Ma quei libri tanto sottolineati sono oggi davanti a me, sulla libreria che ho di fronte, e mi dicono qualcosa.
"La vita non è breve - scriveva Seneca - viene inutilmente sprecata".
E ancora: "Potrebbe esserci al mondo qualcosa di più sciocco di coloro che sono indaffarati più degli altri e per poter vivere meglio si preparano la vita futura sacrificando quella presente?"
Non odiatemi, forse sono i retaggi della mia educazione classica vissuta per troppi anni. Ma su questi ho basato la mia formazione.

Seconda suggestione.
E' da un paio di giorni che riecheggia nella mia mente la parola annaspare. Ci ho messo cinque minuti anni fa per spiegare il significato di questo verbo a un'amica di Singapore, nelle mattine in cui ci scambiavamo competenze: io di lingua italiana, lei di inglese. Oggi questo dimenarsi scomposto in cerca di un appiglio, questo senso di arrabattarsi attorno a qualcosa senza concludere, è così evidente da fondersi completamente con il concetto di tempo.

Incapaci di gestire i momenti vuoti o i diversi tempi di una nuova modalità lavorativa e anche di un nuovo stile di vita, abbiamo cercato di riempire le nostre giornate di attività per scimmiottare i ritmi di prima. Ritmi stancanti, prosciuganti dove non avevamo tempo di pensare e neanche di annoiarci. Sì annoiarci. 
Il problema è che ora pur di "fare", facciamo anche troppo e in malo modo. Dirette no-stop, streaming, videocall infinite, chiamate orarie (nel senso che durano quasi 2 ore), selfie in ogni posizione del video, ginnastica con 80 diverse app. Riempiamo tempo.

Mi spaventa questo turbine virtuale di azioni perché molte non hanno senso se non per impegnare la nostra attenzione che potremmo dirottare altrove. 
E' vero: è anche un modo per sentirsi meno soli, meno lontani, meno chiusi, meno isolati. Ma il proliferare di attività non è proporzionale alla qualità della vita e del nostro lavoro. 
Dire stop, fermarsi, ogni tanto ha più senso che non farlo. 
Nella musica, in ogni spartito, la pausa è un segno grafico da cui non si può prescindere perché scandisce un momento di silenzio il cui valore trova corrispondenza nella durata del suono. Nella musica vocale, è la pausa che lascia spazio al respiro.

Per un solo dolcissimo umore del sangue, 
per la stessa ragione del viaggio viaggiare
il cuore rallenta, la testa cammina
in un buio di giostre in disuso

Sono tornata ad ascoltare De André.

15 aprile 2020

E poi...

E poi una mattina ti svegli e piangi.
"Non ne vale la pena". 
"Lascia che esca, è il mio unico modo per sfogare". 
La testa diventa insolitamente vuota. 
Il corpo non ha peso. 
Fluttui tra le camere quasi stordita. 
Rifiuti il senso di presenza, il rapporto con il reale. 
Sei anestetizzata dalle troppe emozioni esplose insieme in modo così dirompente. 
Rifiuto, disgusto, rabbia, negazione, schifo. Nessuna prevale, hanno tutte lo stesso peso. E ora pesano più di te, più di quanto indichi la bilancia. 
Sei piena. Zuppa. Impregnata e strizzata fino all'ultima goccia. Non c'è più nulla. Neanche un rivolo d'acqua in quel piccolo panno spremuto.
Così decidi, dopo mille acrobazie, che nonostante tutto vuoi lasciare memoria anche di questo. Perché un giorno vorrai ricordarti di mercoledì 15 aprile 2020. 
Questo giorno resterà lì con la sua croce nel calendario e sul tuo cuore. 

9 aprile 2020

Respirare.


Respirare.
Mai come adesso sento la pregnanza di questo verbo. Me la sento addosso, tra le costole, in quel peso che ogni tanto mi si ferma sul petto e preme come un masso, nella gola chiusa e stretta, nelle narici, lungo le braccia che perdono forza, nella mia mente che mi sembra annebbiata e nelle membra stanche.
L’altro giorno sono uscita a fare due passi. Non uscivo da qualche giorno per pigrizia e pensieri. Mi considero una persona allenata ma evidentemente il lavoro aerobico non funziona in situazioni eccezionali. Di ritorno, dopo aver allungato il passo e cavalcato i gradini dei tre piani verso casa, mi sono seduta in divano, ansimante, stanca, eterea, fuori da ogni dimensione. 
Avevo solo preso aria. Ero tornata semplicemente a respirare l’ambiente. La sensazione di fresco. Il sapore dell’erba. Il vento addosso.
La mia mente si è avviluppata nei ricordi di tanti anni fa.
Il respiro come il battito del cuore non necessita della nostra mente. Ma è incredibile come essa possa condizionarlo. Lo so con estrema certezza da quel gennaio del 2006, quando ebbi il mio primo attacco di panico. Inatteso, immediato, mi ha trovato debole e col cuore a pezzi e mi ha colpito nel profondo. Ha colpito nella mia paura più remota e atavica: quella di morire.
Ricordo di aver visto la strada girare. Le voci lontane. La testa appannata, la vista non lucida. Il cuore batteva forte, la gola.. beh, sembrava che qualcuno mi strangolasse. Incapace di fare anche solo un passo in avanti. Senza fiato né respiro. Mi sono appoggiata al muro freddo. Ho pensato per la prima volta nella mia vita: ho un infarto.
Solo chi l’ha vissuto può veramente capire, per gli altri sembrerà strano, insolito, fuori dalla norma. Non è così. E’ terribilmente reale, la prima volta. E forse anche la seconda.
Agli attacchi di panico, col tempo ci si abitua. Diventano ansia e sai come conviverci. Li senti arrivare, li anticipi, li plachi perché fermi la mente e la sconnetti dal corpo.
Il respiro è il primo sintomo. Perché l’ansia toglie l’aria.
Quel giorno mi ha reso diversa ma non sarei la donna di oggi senza quegli episodi che mi porto dentro. E non avrei imparato a conoscermi bene come oggi. Perché il mio corpo somatizza in un modo originale, da sempre. Ogni segnale ha un perché, una spiegazione. Il nostro corpo ci parla e ho imparato ad ascoltarlo.  
E ora io mi sento senza aria. Dovrei spalancare le finestre e respirare da fuori. Mi sono chiusa nella protezione della casa che è in questo momento sicurezza, ma là fuori c’è un mondo che non mi deve destabilizzare. Perché mi fa solo respirare davvero.

8 aprile 2020

BIANCONIGLIO O CAPPELLAIO MATTO?


In questi giorni in cui sto iniziando a pensare al “dopo” e al ritorno alla vita “normale” (sempre che la normalità faccia davvero parte di ciò che si era “prima”) mi sento stretta tra due binari paralleli, a metà tra due vite completamente sfasate. Ho pensato a lungo a come declinare concretamente questa nuova sensazione e, per trovarvi un senso, ho ripreso in mano una favola che quando ero piccina non ho mai apprezzato veramente: perché non l’ho mai guardata davvero fino in fondo. Parlo di Alice nel Paese delle Meraviglie: un romanzo, prima che un cartoon di cui tutti abbiamo scolpito in testa le immagini, dove Lewis Carroll ha sfruttato tutta una serie di metafore, similitudini e allegorie per raccontare un percorso di crescita interiore.

Così ho ragionato: e se anche noi, come Alice, dopo essere caduti all’improvviso nel buco nero della Pandemia, avessimo intrapreso un viaggio?
E se questo viaggio fosse, com’è successo a quella biondina dagli occhi vispi e la lingua lunga, una grande occasione per imparare a conoscere meglio noi stessi e le emozioni dell’animo umano?

Partiamo dalla caduta, quella da cui ha inizio il viaggio assurdo di Alice e forse anche il nostro. Il mio di certo è partito il 6 marzo scorso, quando ho chiuso dietro di me la porta e ho indossato il pigiama a fine giornata, non ancora consapevole che non sarei più uscita. Non con la libertà di prima. Intrufolandosi in quel “buco” nell’albero, Alice insegue la sua curiosità ma soprattutto un arruffato e frettoloso bianconiglio con l’orologio che gli esce dal panciotto. Anche noi forse siamo entrati in una tana buia e nascosta. Il perché l’abbiamo fatto non ha nulla a che fare con la favola, perché è chiaro ed evidente che non è stata una nostra scelta; eppure lo strapiombo in cui siamo caduti è altrettanto profondo: è stata una caduta lenta nel vuoto, fino al fondo della cavità.

Ma cosa trova in fondo al buco, Alice? Rileggendo il libro ho fatto un’insolita e dimenticata scoperta. Alice trova un appartamento ben arredato, che è guarda caso la situazione in cui è finito ognuno di noi dopo un decreto che ha vietato ogni possibilità di uscita se non per giustificato motivo.
Siamo rimasti intrappolati in un cunicolo, un libro, un sogno, chiamatelo come volete ma è così reale da sconquassarci ogni giorno le emozioni. In questo nuovo scenario ci riappare d’incanto la figura del bianconiglio che è così lapallissiana: è l’allegoria dell’uomo ansioso, divorato dal suo rapporto con un tempo (che non ha), in ritardo perenne nel suo affaccendarsi privo di senso. Non vi ricorda qualcuno?
Incredibile a pensarci ma l’unica figura del romanzo antitetica al coniglio bianco, nel suo rapporto con il tempo, è un uomo il cui nome inneggia alla pazzia: il Cappellaio matto. E’ l’unica figura del libro caratterizzata da un’allegra monotonia legata alla condivisione con pochi amici della stessa routine tutto il giorno, ogni giorno: per lui e per chi lo circonda sono sempre le sei del pomeriggio e l’ora del tè.
Tempo, routine, abitudine. Ma non è il solo rimando.
In tutta la storia, nelle sue vicende, Alice mangia biscotti che la fanno rimpicciolire, fette di torta che la rendono gigante. Cambiare dimensione diventa l’unica via per proseguire il suo viaggio. Anche noi abbiamo dovuto cambiare dimensione e forma, non solo estetica. Siamo diventati piccoli e grandi (allegoria degli alti e bassi della vita) ci siamo arrabbiati, scoraggiati, ritrovati soli e abbiamo (forse) anche pianto. Di certo, abbiamo iniziato una strana maratona senza sapere dove andare e senza esseri umani intorno. E in questa dualità tra avventura e abitudine, stiamo imparando ad accettare, come Alice, debolezze e stranezze. Ma veniamo al dunque che non voglio annoiarvi: il risveglio di Alice è provocato da un evento traumatico: la Regina di cuori che vuole tagliarle la testa.

Anche noi, temo, ci risveglieremo traumaticamente.
Perché è certo: prima o poi ci sveglieremo.
La storia sarà finita e forse qualcuno, come Alice, avrà la sensazione di essersi addormentato per un po’ e di aver sognato un mondo strano. Ma c’è un ultimo particolare degno di nota: Alice, ancora intorpidita, ha il coraggio di raccontare la sua storia alla sorella.
Può essere un gesto liberatorio o un monito a non dimenticare. Dire e scrivere cosa abbiamo vissuto ci aiuterà, forse, a non dimenticare chi siamo stati, cosa abbiamo fatto, sentito e provato dopo la nostra caduta. Qualcuno potrebbe stupirsi e arrivare a credere che in quel mondo lontano da tutto, fatto di personaggi e voci insolite, ci sia un senso.
Un nuovo significato da dare alla nostra vita, di ritorno alla superficie.

2 aprile 2020

La vita i tempi del coronavirus/4


Il 6 aprile sarà un mese esatto che sono fisicamente chiusa in casa.
Ricordo ancora cos’è successo il 6 marzo scorso: dov’ero, le ultime cose che ho fatto prima di chiudere dietro di me la porta, indossare il pigiama e serrare il chiavistello senza minimamente pensare che l’indomani non sarei più uscita. Non quotidianamente, almeno: non con la libertà di prima.

Oggi per la prima volta da quel giorno, andando con la memoria a recuperare ogni frammento d’immagine del “prima”, ho iniziato seriamente a pensare al “dopo”. A quando tornerò alla mia vita. E così, ho ardentemente sperato, per più di qualche secondo, di non tornarci: non voglio tornare esattamente a com’era prima. Non voglio tornare puntualmente a com’ero io prima.
Per non riavvolgere di scatto il nastro all’indietro senza alcuno strappo, ho pensato innanzitutto che non dovevo dimenticarmi neanche per un istante delle emozioni provate in questi giorni di clausura. Di quello che ho pensato, provato, vissuto pienamente e poi scritto.

Sbaglia chi pensa che fermarsi e non poter uscire di casa sia sinonimo di non vita. Se si intende vita quella vissuta fino al 6 marzo, di certo siamo in una dimensione opposta. Ma c’è un sapore nuovo in questa diversa e insperata dimensione. Io l’ho saputo apprezzare, nonostante tutto, e non voglio dimenticare cosa ho provato e pensato in questi giorni. Per questo lo scrivo e lo metto nero su bianco. Perché io sono anche stata bene, lontana da molte cose. Sono stata bene nella ricerca e recupero del mio benessere e di ciò che mi fa stare in pace con me sé stessa. E’ stato ed è tutt’ora un percorso; e non è ancora finito.  

La prima settimana è stata quasi piacevole nel suo intontimento e anche, lo ammetto, nella non globale e verticale comprensione di ciò che stava realmente accadendo. Nell’inconsapevolezza piena della gravità della situazione, mi sono riappropriata della mia vita e ho rallentato. Mentre il virus fuori toglieva l’aria ai polmoni a sempre più persone, io ho iniziato nuovamente a respirare. Era ancora consentito uscire per passeggiate e jogging e ho riscoperto i broli dietro la collina, la quiete della sera, l’odore dell’erba. L’aria già iniziava a profumare di primavera e mi sono goduta la nuova routine, il mio compagno, la nostra vita.
Ho così riscoperto il valore del TEMPO. E guardandomi alle spalle, ripensando alla sveglia alle 6.10, agli oltre 200 chilometri al giorno in auto lungo l’A4 stritolata dai camion in doppia corsia, o di corsa giù dal treno per rincorrere e prendere al volo la metro affollata, mi sono rivista con la faccia del bianconiglio di Alice con suo continuo tirar fuori l’orologio dal panciotto: allegoria (anche nella favola) dell’uomo divorato dal suo rapporto con un tempo (che non ha), in ritardo perenne, nel suo affaccendarsi privo di senso.

La seconda settimana è stata una lenta presa di coscienza. I numeri fuori stavano impazzendo, non mi tornavano i conti, ho iniziato a scandagliare tutti i giornali esteri. Ho iniziato seriamente a preoccuparmi.
Ho cominciato ad avere PAURA per i miei cari e a sentirmi più sola, anche nel lavoro. Mancava quella parola scambiata in ascensore, nei corridoi, la pausa caffè con il gossip e la battuta che è comunque una circolazione sana di informazioni. E’ stata la settimana del mio impasse, e mi sono ritirata in SILENZIO. Dovevo pensare, dovevo capire cosa stava realmente accadendo fuori dalla porta a uno, due e migliaia di chilometri dal mio chiostro. Ho iniziato a scrivere.

La terza è stata la settimana dello spegnimento dei video in tutte le call e del pigiama. E’ stata la settimana della definitiva presa di coscienza che non sarebbe passato tutto in fretta. Difatti non ero in smart working ma in clausura forzata a casa. Non sono più uscita: ho passato sette lunghi giorni chiusa nell’appartamento, prendendo una boccata d’aria ogni tanto in terrazza. La scrittura mi ha aiutato a sfogare. Ho letto e pensato tanto. Ho pianto nel ricordo di chi mi manca. Ero meno ansiosa (talvolta sono quasi ipocondriaca) ma tristemente realista.

Mentre scrivo sono a metà della quarta settimana, in quella che considero la settimana della nuova NORMALITA’ dove sono venute meno le cose eccezionali che ci si era inventati all’inizio: la gente non canta più a squarciagola dai balconi, non applaude più i medici in un gesto di comunità tra il liberatorio e la vicinanza a chi davvero sta dando tutto.
Così mi sono accorta che l’uomo può abituarsi a tutto. E’ solo questione di tempo.
La mattina mi sveglio quasi sempre alla stessa ora, leggo la rassegna, i giornali, faccio il caffè mi siedo e faccio colazione per almeno 15 minuti. Poi mi preparo, mi trucco (poco) mi vesto comoda. 

Questa nuova vita TRANQUILLA, nonostante i buoni ritmi di lavoro e pure i problemi della gestione di alcune faccende da remoto, è diventata normale e ci ho stranamente trovato un senso. Ma ho iniziato a inquietarmi al pensiero di quando finirà e ho avuto una nuova gran paura: mi sentirò nuovamente sicura ammassata in un vagone della metro a Milano? Mi sentirò sana al primo sternuto indotto da un polline? Avrò la forza, girando come una trottola a contatto con chiunque per lavoro, di abbracciare mio padre con i suoi stent al cuore? Guardando i cinesi che girano con la mascherina, le ore d’aria contate al giorno e monitorate con lo smartphone, gli ingressi centellinati vedo uno squarcio di futuro prossimo ma non trovo ancora grandi risposte anche sul mio futuro e così mi attorciglio nei pensieri di cosa vorrei salvare di tutto quello che ho provato in questi 31 giorni. 
Servirà un grande CUORE per non dimenticare. Neanche chi siamo stati mentre eravamo chiusi, soli e inermi con noi stessi.

24 marzo 2020

La vita ai tempi del Coronavirus/3

Terza settimana di reclusione.
Non lo chiamiamo più smart working. Non è lavoro agile o telelavoro: siamo ufficialmente reclusi dentro mura amiche e confortevoli senza alcun contatto sociale, con l’agognata possibilità di mezzora d’aria al giorno tra il terrazzo e una ristretta area verde comune condominiale. Per i più fortunati, un giardino privato.
Io lavoro da casa da ormai 16 giorni e per fortuna lavoro! Le giornate da lunedì a venerdì sono cadenzate dai ritmi operativi e passano agilmente tra un documento, una call e un comunicato stampa. Il sabato e la domenica sono più lenti ma al momento vivo con grande tranquillità questo momento.
Pensavo di avere meno forza, invece non mi pesa (ancora) stare chiusa. L'idea di non uscire, di non camminare, non andare per negozi, non andare in ufficio poteva essere psicologicamente impattatante. Ma io sto resistendo più di quello che immaginavo. Resistono i miei nervi, resiste il mio sorriso. Lo sfodero ogni sera verso le 18.30 con la mia famiglia. Anche noi abbiamo un appuntamento video come con la Protezione Civile. Ci teniamo compagnia, ci raccontiamo come stiamo, cosa facciamo. Avere due bimbe piccole dall'altro lato del telefono aiuta tutti. Aiuta soprattutto i nonni. Ma siamo tutti forti. Io ho una famiglia forte. Un po' ci siamo abituati a non vederci sempre: whatsapp è per noi uno strumento comune anche perché la mia famiglia è in ogni dove: a Praga, a Pisa, a Rovigo. Ci scambiamo storie, articoli di giornale, video divertenti, temperature, ricette per la cena.
Sulla scia dei precedenti due post, anziché un elenco di cose, voglio condividere cosa mi è successo in questa terza settimana in cui, lo ammetto, ho preferito le call telefoniche a quelle video, ho cucinato di meno e ho dormito di più. Molto di più.
In questi ultimi sette giorni ho pensato molto a come viveva mia nonna. Lei sì che non usciva quasi mai dalle mura di casa se non per andare al supermercato, facendo proprio 200 metri.
Lei vestiva sempre di nero. Adorava pochi e comuni vestiti, non si arrabattava per essere elegante, diversa. Doveva essere comoda. Aveva le galline, i conigli, l’orto e gli alberi da frutta. Il latte lo andava a prendere dalla vicina di casa. Quando ero piccola ci andavo anche io con un pentolino. Quel siero durava una giornata poi, il giorno successivo si ripeteva il rito. Le pannocchie erano sul selciato dietro casa a maturare. L’aiutavo a sgranarle per farci la farina e con le più piccole i pop corn. Si facevano conserve per un anno nella lavanderia di casa, tra una scatola di pulcini sotto la luce per crescerli al caldo, il baccalà appeso ai fili della biancheria perché si essiccasse e l’odore della cenere quando lavava i panni. Molti ancora a mano. Il caffè era filtrato con la carta, si cuoceva nella stufa alimentata a legna tagliata dal nonno. Aveva alberi di limoni, pesche e susine. Ogni tanto nei prati attorno, lungo il fosso, si andavano a raccogliere le erbette per fare frittate e risotti. Faceva un’unica torta, semplice, da inzuppare nel thè. Non buttava via nulla: bucce di patate, pane raffermo, pasta scotta, interiora, insalata annerita. Aveva un’etica del risparmio da dopo guerra.
Ho pensato a lei in questi giorni. Sono quasi 400 ore che non indosso un tacco. Non metto una giacca. Una camicia. Mi trucco poco. Ho riscoperto, in assenza di estetiste e parrucchiere, i vecchi rimedi di un tempo: il peeling alla pelle col sale fino, gli impacchi ai capelli all’olio d’oliva. Cosa d’altri tempi che prima non avevo tempo e coraggio di fare. Pagavo e altri mi davano un servizio più raffinato, più chimico, più chic. In questi giorni che passo davanti all’armadio e vedo l’ammasso di cose, in queste ora che stiamo centellinando l’acqua per non scendere al supermercato ogni due giorni e beviamo il caffè dalla moka piccola per non consumare troppa polvere, mi sono accorta che mi serve davvero poco per condurre la mia vita in modo sano. Privata del contesto sociale, senza alcuna immagine da dover sostenere ma concentrata nel preservare la mia salute, quella dei mie cari e la mia produttività sul lavoro, non mi serve altro che un pc, un telefono, una dispensa mediamente fornita e pochi vestiti.
Mia nonna non era una persona felice. Non poteva esserlo per quello che aveva visto e vissuto. Lei, quella vita, non ha avuto la forza di cambiarla. Io ho avuto l’opportunità di uscire dalle mura perché l’ho scelto: ho visto il mondo, conosciuto popoli e culture. Ecco questo mi manca. Mi manca il mondo fuori ma non riesco a non pensare al non fitto elenco di persone che ho sentito e tenuto legate a me in questi ultimi 16 giorni, e non grazie ai social. Al netto dei colleghi di lavoro e della famiglia, sono poche, vere e uniche. A me bastano e a loro dico grazie.

17 marzo 2020

La vita ai tempi del Coronavirus /2

E' incredibile quanto il silenzio, dentro e fuori casa, stimoli il pensiero ma soprattutto l'emozione.
Non so voi, ma mi ritrovo con gli occhi lucidi a guardare con orgoglio, empatia e spirito nazionale/collettivo, gli italiani che cantano dalle finestre, i medici in corsia, i pazienti che con i loro video ci raccontano il dolore della  malattia, perfino i post di anonimi compaesani che rendono evidente una realtà che, fino a un mese fa, era distopica e, per questo, inverosimile.
Una sceneggiatura da Oscar e incassi record al botteghino che noi italiani abbiamo, con la nostra creatività, perfino ironizzato in vignette, fumetti, filmati amatoriali ai limiti della satira.

Stamani, mi sono chiesta (di nuovo): cosa ho imparato da questi primi nove giorni chiusa in casa in smart working?

1. Sono fortunata, perché ho un'azienda che tutela la mia salute. Se non avessi cambiato lavoro oltre un anno e mezzo fa sarei in redazione a solidarizzare con i colleghi di altri giornali per le situazioni  assurde in cui stanno operando molti giornalisti, costretti a misure di tutela solo dopo l'evidenza dei tamponi su alcuni colleghi. A loro va la mia piena solidarietà.

2. Sono felice di non essere sola. Lo dico senza mezzi termini. Se tutto questo fosse capitato anni fa quando abitavo in 50 metri quadri a Padova, senza avere al fianco il mio compagno, non so quanto e come ne sarei uscita. Perché, al di là di tutto, delle parole, della cena condivisa, di un divano da spartire e di due chiacchiere vere, anche io ho fatto i conti con le mie paure. Ma affrontarle in due è come dividere un enorme peso a metà.

3. Il lavoro agile o smart working ha senso se disciplinato e "contingentato" nel tempo: x giorni a settimana, x giorni al mese. Lavorare da casa, ininterrottamente, per un periodo così tanto prolungato porta con sé grandi opportunità (sia a livello personale che organizzativo/tecnologico) ma anche evidenti svantaggi. L'isolamento, per esempio. Nelle organizzazioni dove i flussi delle informazioni sono meno lineari e osmotici, dove il team non è forte e coeso, dove è più complesso far sentire ogni singolo collega parte di un tutto, il rischio è lo scollamento. Per evitarlo serve un effort maggiore a ogni livello.

4. Gli smartworker si dividono in due categorie: quelli che fanno finta non sia accaduto nulla e pur stando a casa costruiscono il loro set perfetto per le videocall, si preparano, vestono e acconciano come se andassero in ufficio e, de l'autre côté, quelli che volteggiano tra il divano e la scrivania in tuta o pigiama. Nel secondo caso, nella maggior parte dei casi, curano solo il mezzobusto come se dovessero andare in onda da anchorman nel TG delle 13. Poi, hanno finito il turno.

5. E' lapalissiano: le donne potrebbero stare a casa intere settimane ma gli uomini non ce la possono fare. Credo sia questione di dna e ora ne ho le prove. Il maschio deve uscire almeno per 15 minuti al giorno, per una qualsiasi motivazione.

6. Tra un paio di settimane dovremo fare tutte i conti con noi stessi allo specchio. Le donne specialmente. In assenza di estetiste, parrucchiere, massaggiatori e per alcuni anche chirurghi estetici, in assenza di extension, ciglia e unghia finte, di tinture per capelli, scrub e massaggi, saremo più naturali che mai. Ci guarderemo riflesse e dovremo avere il coraggio di riconoscerci davvero per quelle che siamo senza alcun filtro o ritocco. Chi si piacerà ancora, sarà in pace con sé stessa più di quanto non lo sia mai stata. E per le donne sarà più dura, credetemi.

6. A volte penso a quando tutto questo finirà e che cosa farò il giorno in cui tutto tornerà normale. Riprenderò la mia vita come se nulla fosse successo? Abbraccerò i miei genitori e le mie nipoti allo stesso modo? Cambierò qualcosa nel mio modo di comportarmi?

Io credo che non sarò più la stessa persona, quella che ero prima del 20 febbraio. Forse il cambiamento durerà poco e tornerò alla frenetica routine in un batter d'occhio ma temo non sarà così. Cambieremo tutti. Ognuno di noi avrà una memoria personale di quello che è stato. Tanto più tragica quanto più questo virus ci avrà toccato da vicino.
Ma potremmo, se lo vogliamo, essere migliori. Migliori dentro per le scelte che faremo, migliori fuori, nei nostri nuovi comportamenti con gli altri e con il mondo che ci circonda.
Cit. Ci vuole solo coraggio, o forse buon senso, per capire che le lezioni migliori sono di solito le più dure (Anthony Clifford Grayling).

10 marzo 2020

La vita ai tempi del Coronavirus /1

E chi l'avrebbe mai detto che sarebbe toccato a noi? Che il virus sarebbe stato alle nostre porte? Abbiamo compiuto tutti, io per prima, il grande errore di pensarlo lontano chilometri e di immaginarlo come qualcosa di fisico che, per spostarsi e abbandonare le lontane lande orientali, richiedesse tempo e fatica. E invece è stato rapido, imminente, sorprendente nella sua dirompenza.
Eccoci qui dunque: a casa, obbligati a stare chiusi senza contatti umani a guardare dalle finestre strade e piazze semi vuote, a seguire ogni giorno i bollettini medici e metereologici sperando nel caldo e in un vaccino. Il primo, non sappiamo se avrà affetto su questo infido batterio polmonare. Il secondo, sappiamo già che prima di fine anno non sarà disponibile.
Il governo, la politica in generale, ha ondeggiato tra misure draconiane e il marketing spinto. Siamo passati dall'hastag #litalianonsiferma a #stateacasa in due giorni. Non siamo impazziti, abbiamo solo sottovalutato i numeri di un contagio che, pur scientificamente forse in linea con le peggiori influenze del passato (c'è chi ancora ricorda i 5 mila passati a miglior vita nel 1969 per colpa del virus della spagnola) ha messo ko il nostro sistema sanitario perché non evita nessuno neanche, adesso pare, i giovani e sani; in più si allarga con la rapidità di un bicchiere colmo di latte versato di getto su un tavolo di marmo liscio.

Ma ora veniamo a me. Che cosa mi porto a casa da questi primi giorni di smark working?
L'ordine è puramente casuale.
1. Passo molto più tempo con la mia metà con cui condivido ormai minuti preziosi ogni giorno
2. Non mi ritrovo a fare la valigia ogni due giorni
3. La casa è molto più pulita e ho meno lavatrici e camicie da stirare
4. Non mi piastro i capelli da almeno tre lavaggi e questo li rinforzerà di sicuro
5. Credo di aver risparmiato almeno 50 euro al giorno di benzina e autostrada: una cifra che, moltiplicata per tutti i giorni che starò a casa, mi darà un accantonamento complessivo da non disdegnare a fine mese
6. Non ho mai visto così tanti film e letto così tanti giornali
7. Dormo almeno un'ora e mezza in più al giorno
8. Faccio yoga a giorni alterni con la mia app e pur saltando la lezione di danza, con una seconda app, alleno l'en dehors davanti la smart tv.
9. Ho più tempo per studiare inglese
10. Lavoro più o meno allo stesso ritmo di prima e provo la ridente soddisfazione nel pensare che io nello smart working ho sempre creduto, fin dai tempi non sospetti quando nelle redazioni dei giornali i sindacati ostruivano il lavoro in altra sede dalla redazione. Al tempo ho dovuto lottare per avere un portatile, un laptop che poi ha effettivamente sostituito il fisso. Forse perché sono nata freelance, forse perché ho lavorato in ogni luogo e orario: scrivendo e inviando pezzi dai parcheggi degli autogrill, intervistando persone al telefono dall'altro capo del mondo, facendo interurbane dai bar o perfino, all'inizio, nelle cabine pubbliche del telefono in centro città.

Se c'è una cosa che mi manca è il poter andare a trovare mio padre. Ho due linee di febbre che non mi permettono di varcare la soglia di una casa dove c'è una persona, babbo, con alcune complicanze di salute pregresse. Ma io sto bene, è solo precauzione.

Non so se tra un mese ci guarderemo all'indietro facendo un sospiro di sollievo per quanto fatto o disperandoci fortemente per gli effetti che queste misure avranno sul Paese e sull'economia. Potrebbero esserci entrambi i sentimenti.
Io mi auguro che questo virus non intacchi neanche lievemente i miei affetti e mi auguro che qualcosa ci insegni a livello umano, non solo tecnologico.
Parlo del valore del tempo che ci è stato ridato a nostra disposizione perché siamo stati costretti a fermare una routine infernale e forse dopata, dei rapporti fisici con le persone che ci sono state tolte nelle nostre relazioni sociali vere e non virtuali, dell'importanza del bene salute e di avere attorno a noi una società che ti salva e ti cura senza dover spendere un euro, del fatto che alla fine siamo tutti fragili e interconnessi.
La lezione vera, alla fine di tutto, è che il "non tocca a me" è un falso alibi che non ci possiamo più permettere neanche solo con il pensiero.

25 febbraio 2020

L'insegnamento del giorno.

Amico, ex collega: "Hai fatto un carrierone della madonna"
Mia risposta: "Ma dove?".
Insegnamento: nulla da fuori appare come la vedi te dal "di dentro". A volte è peggio. A volte è anche molto meglio.
Necessito di un cambio di prospettiva.

21 febbraio 2020

Mi serve una spazzola... per le gambe.

Incredibile cosa si possa fare dopo i 40.
Vi assicuro che ho riflettuto a lungo prima di scrivere questo post: ho riflettuto sull'opportunità della messa a nudo di un qualcosa di privato e anche non troppo onorevole, ma di cui sono certa di poter ottenere piena solidarietà femminile. Alla fine, questo è un blog anonimo! Per fortuna.
I quattro chilogrammi assunti da dicembre - ma credo che la molla scatenante sia stata la vita sedentaria - hanno portato con sé la buccia d'arancia. Malefica buccia d'arancia.
Sarà l'età ma, se anni fa in un paio di settimane tornavo allo status quo ante, ora i tempi di recupero si sono sensibilmente dilatati.
Quindi ho googlato.
Ho provato creme di ogni marca, odore e tipo, la favolosa Somatoline (l'unica che funziona davvero ma è da evitare per lunghi periodi) ho bevuto aceto di mele, estratti d'ananas e ogni tipo di tisana drenante, bicchieri d'acqua calda la mattina a digiuno, ho fatto la carbossi terapia, l'azoto, punture e laser. Credo di aver provato ogni cosa in passato ma non mi era mai capitato di iniziare a spazzolarmi le gambe: l'ultima frontiera per combattere il mal funzionamento del micro circolo sembra infatti essere una semplice e innocua spazzola piatta con i denti di plastica, quella da bambole che usavi da piccola.
Devi indossare un leggings per non trovarti dopo 2 minuti le gambe a righe e pettinare per almeno 10 minuti ogni gamba: avanti e indietro, dal polpaccio al gluteo.
Non so se funzionerà (su google e youtube le influencer del momento assicurano effetti già dopo 7 giorni di spazzolamento) ora posso solo dirvi che è estremamente piacevole. Un po' noioso ma una coccola serale tipo "pet therapy". Non oso pensare cosa succederà dopo i 50.

19 febbraio 2020

Quattro chilogrammi

Me ne sono accorta quando ho rotto i jeans. Sì, rotto. Strappato. Inesorabilmente.
Non è semplice indossare il denim appena lavato in lavatrice ma per me non è mai stato un problema. Sono sempre stata uno stecchino rinsecchito: la gente mi faceva il giro della coscia con il pollice e l'indice di due mani. I medici mi hanno sempre tacciato per anoressica. Ma io ho sempre mangiato.
Qualcosa è però cambiato.
Il primo segnale è arrivato il 14 gennaio scorso. Milano, hotel, primissima mattina. Una giornata particolare e quel tailleur blu, taglia 36 di pantalone, che mi stringeva sulle cosce. Non ci ho fatto caso, sarò il ciclo mi sono detta. Poi 15 giorni fa, i jeans. Zac. Da buttare via.
La prova bilancia ha confermato: 4 chili pieni in più in meno di 40 giorni.
Che è successo a quell'esserino microscopico con cui mi sono confrontata per oltre 20 anni, anzi da sempre? So che sembrerò matta in queste esternazioni ma se avete sempre avuto confidenza con un corpo esile, ossuto, se avete passato anni a nascondere le braccia perché troppo magre e le costole che balzavano dal petto, non potete capire.
"Sono diventata burrosa" mi sono detta guardandomi allo specchio. Mi piaccio, piaccio al mio uomo. La gente mi dice: ti vedo bene. In realtà non sto bene, ma non per il peso. Credo di aver cambiato, a 41 anni compiuti, il metabolismo. La vita sedentaria non mi aiuta, tre ore di macchina al giorno neanche. Ma questo è il mio corpo ora... ed è forse finalmente un bene che abbia lasciato quello stato di deperimento in cui ero finita.
Ma dovrò fare a meno dei miei super jeans per un po' e apprezzare quella nuova me che adesso vedo allo specchio. Il problema però non è nei chili. Della nuova me, ultimamente, non mi piace lo sguardo.

23 gennaio 2020

Io c'ero. Davos, un anno fa.

Davos è una prova di resistenza, prima di tutto fisica. La temperatura segna quasi -20 gradi. L’agenda dei lavori inizia alle 7.15 con i networking breakfast e finisce alle 3 di notte (per chi vuole spingere al massimo) al primo piano di qualche hotel con un bicchiere riempito di ghiaccio e alcol. Si passa da una stanza all’altra, da un hotel a un altro, lungo una promenade che alle sei del pomeriggio appare lunga il doppio di quanto sembrava la mattina. Inutile contare i caffè bevuti: anche quelli vanno annoverati alla voce “relazioni”. Condividi tavoli, sgabelli, scalini e angoli che sembrano meno caotici di altri. Cerchi disperatamente un metro quadrato dove appoggiare un pc e una lounge dove poter sgranocchiare qualcosa.
Per entrare nelle lounge, dicono, basta esibire il biglietto da visita. La realtà talvolta è un’altra: se sono “vuote”, quindi entro le 9.30 del mattino, puoi sorseggiare seduta comodamente sul divanetto un caffè con tanto di pasticcino. Ma da metà mattina in poi è una caccia al posto che si libera: prenoti, riservi, aspetti. Se sei “dentro”, la dritta all’italiana divenuta globale è che: tutto quello che vedi è un gadget che puoi pensare di tenere e portar via: tazze, occhiali da sole (di plastica e finiti), cappelli col pon pon, semplici penne.
 Le hostess nei corridoi distribuiscono senza grandi successi le tante copie di quotidiani di carta in cerca di lettori. Il tempo di fermarsi a leggere è poco: stimoli non ne mancano dentro e fuori il Congress Center, lì dove solo il badged formato top ti può portare. Ma per chi non accede c’è il comodissimo streaming via link e soprattutto, ci sono i meeting organizzati outside negli hotel.
C’è un’intera via di negozi che, per una settimana, ha messo in cantina scaffali e prodotti. I commercianti, che si staranno sicuramente godendo una meritata vacanza al caldo, hanno abbandonato le vetrine a Facebook, Accenture, Google, Saleforce ma anche allo stato del South Africa. Ogni spazio retail è una location di eventi-networking-conferenze.
 C’è da impazzire a mettere ordine al programma ma di certo non ci si annoia a Davos. L’importante è riservare, ovunque. Funziona come in America con le gentil donne all’ingresso che controllano che tu sia in lista e identificano il tuo badge con lo smartphone. The red line. Controlli di sicurezza altissimi, stile aeroporto, guardaroba affollati di cappotti e pellicce, sciarpe e cappelli chiusi in sacchetti di plastica e per molte donne il cambio di scarpe dai moon boot o similiari ai tacchi. Free in molti luoghi, a cinque euro in altri. Il caro prezzo dell’essere femminile anche con la neve che fuori è alta oltre un metro.
Eppure non puoi non esserci. Il bagaglio di informazioni che ti porti a casa (comprese le ore di inglese) è uno stimolo a pensare diversamente. Ogni evento, video, frase ti resta stampata. Osservi, impari e pensi a come sfruttare al meglio.
 Ma Davos è anche reputazione. Davos è un cinema ben costruito che muove diverse leve interne ed esterne e, al di là degli argomenti e degli scenari più vicini e lontani, è uno sguardo sul mondo e tutte le sue facce riunite attorno a un tavolo: da Singapore a Tokyo, Gran Bretagna, Spagna, America. Facce unite da un lingua comune che è l’inglese, dallo stesso bisogno di “esserci”, dal solcare una promenade avanti e indietro fin dalla prima alba del giorno, incorniciati da quei monti incantati di neve.