25 ottobre 2019

UN FIORE D'ACCIAIO

Ho iniziato ad amare la danza guardando la televisione. Ero davvero piccola. Avevo solo quattro anni e mezzo quando sono entrata in quella palestra al Sacro Cuore indossando le mie prime mezze punte. Non ho mai desistito, mai avuto paura di non farcela, mai fatto un passo indietro.
Ho provato a giocare a pallavolo e sono rimasta in panchina pochi mesi. Ho imparato a nuotare solo a 21 anni: ho adorato l’effetto che aveva l’acqua sul mio corpo e quella sensazione di essere ovattata, lontana dal mondo. Ma sono sempre tornata alla sbarra. Anche la palestra non ha mai fatto per me.
Ho danzato fino a 22 anni, senza mai fermarmi neanche un anno pur sapendo che il mio lavoro sarebbe stato un altro. Sono sempre stata in prima fila sul palco, odiavo stare nelle retrovie. Ricordo ancora la sensazione di vuoto dietro le quinte, che effetto faceva non ricordarsi nulla, neanche un passo, e poi entrare accecata dalle luci, davanti a un pubblico al buio e impercettibile e, come per miracolo, eseguire perfettamente una serie di otto dimenticando i conti e abbandonando il corpo alla musica.
Ho trascorso otto anni fuori dalla sala da ballo. Guadavo le locandine degli spettacoli, gli orari dei corsi di danza appiccicati alle vetrine come la piccola fiammiferaia la notte di Natale, quando fuori, al freddo, scruta da dietro le tende le famiglie felici. A trent’anni ho ripreso il coraggio e mi sono riscritta ad un corso di moderna per tornare al classico appena dopo un anno. Sono ripartita con un corpo diverso, più rigido, adulto e con tre tamponamenti alle spalle: un collo malandato, una schiena da ufficio. Passo dopo passo, ho recuperato una dimensione che non poteva essere quella di quando avevo 16 anni ma la soddisfazione nel portare a casa una doppia piroette o una diagonale complessa è stata impagabile.
Non ho più danzato per saggi, spettacoli, per dimostrare. Ho iniziato a danzare per me stessa, perché il mio corpo e la mia mente me lo chiedevano. Il recupero è stato lento e il lavoro mi ha portato a mollare di nuovo, due anni fa. Sono ritornata alla sbarra quest’anno, il 1 di ottobre, rivedendo allo specchio un corpo ancora diverso.
La difficoltà nel riprendere ogni volta è la stessa: è fatica vera, anche mentale. I dolori si sentono ovunque: dita, caviglie, polpacci. Ci si rende conto di avere dei muscoli che nemmeno si immaginava esistessero. Ma in quelle due ore di lavoro sul proprio corpo, a ripetere con convinzione, tenacia e sudore sempre lo stesso esercizio c’è la massima espressione di una scuola di vita di cui, è ormai ovvio, non riesco a stare senza. Neanche a 41 anni.
La danza è concentrazione. La danza è ricerca di equilibrio. E’ un lavoro millimetrico sui dettagli. E’ dinamica e mai forza. E’ eleganza e portamento. E’ lo sguardo al pubblico e un sorriso che mai svela la fatica. La danza è la dimostrazione che per raggiungere un risultato serve un lavoro lungo, quotidiano, incessante e completo che non deve trascurare nemmeno l'altezza dello sguardo. La meta si raggiunge millimetro dopo millimetro. Ma richiede predisposizione, pazienza e grande conoscenza di sé. Anche dei propri limiti per capire come superarli…

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