10 marzo 2020

La vita ai tempi del Coronavirus /1

E chi l'avrebbe mai detto che sarebbe toccato a noi? Che il virus sarebbe stato alle nostre porte? Abbiamo compiuto tutti, io per prima, il grande errore di pensarlo lontano chilometri e di immaginarlo come qualcosa di fisico che, per spostarsi e abbandonare le lontane lande orientali, richiedesse tempo e fatica. E invece è stato rapido, imminente, sorprendente nella sua dirompenza.
Eccoci qui dunque: a casa, obbligati a stare chiusi senza contatti umani a guardare dalle finestre strade e piazze semi vuote, a seguire ogni giorno i bollettini medici e metereologici sperando nel caldo e in un vaccino. Il primo, non sappiamo se avrà affetto su questo infido batterio polmonare. Il secondo, sappiamo già che prima di fine anno non sarà disponibile.
Il governo, la politica in generale, ha ondeggiato tra misure draconiane e il marketing spinto. Siamo passati dall'hastag #litalianonsiferma a #stateacasa in due giorni. Non siamo impazziti, abbiamo solo sottovalutato i numeri di un contagio che, pur scientificamente forse in linea con le peggiori influenze del passato (c'è chi ancora ricorda i 5 mila passati a miglior vita nel 1969 per colpa del virus della spagnola) ha messo ko il nostro sistema sanitario perché non evita nessuno neanche, adesso pare, i giovani e sani; in più si allarga con la rapidità di un bicchiere colmo di latte versato di getto su un tavolo di marmo liscio.

Ma ora veniamo a me. Che cosa mi porto a casa da questi primi giorni di smark working?
L'ordine è puramente casuale.
1. Passo molto più tempo con la mia metà con cui condivido ormai minuti preziosi ogni giorno
2. Non mi ritrovo a fare la valigia ogni due giorni
3. La casa è molto più pulita e ho meno lavatrici e camicie da stirare
4. Non mi piastro i capelli da almeno tre lavaggi e questo li rinforzerà di sicuro
5. Credo di aver risparmiato almeno 50 euro al giorno di benzina e autostrada: una cifra che, moltiplicata per tutti i giorni che starò a casa, mi darà un accantonamento complessivo da non disdegnare a fine mese
6. Non ho mai visto così tanti film e letto così tanti giornali
7. Dormo almeno un'ora e mezza in più al giorno
8. Faccio yoga a giorni alterni con la mia app e pur saltando la lezione di danza, con una seconda app, alleno l'en dehors davanti la smart tv.
9. Ho più tempo per studiare inglese
10. Lavoro più o meno allo stesso ritmo di prima e provo la ridente soddisfazione nel pensare che io nello smart working ho sempre creduto, fin dai tempi non sospetti quando nelle redazioni dei giornali i sindacati ostruivano il lavoro in altra sede dalla redazione. Al tempo ho dovuto lottare per avere un portatile, un laptop che poi ha effettivamente sostituito il fisso. Forse perché sono nata freelance, forse perché ho lavorato in ogni luogo e orario: scrivendo e inviando pezzi dai parcheggi degli autogrill, intervistando persone al telefono dall'altro capo del mondo, facendo interurbane dai bar o perfino, all'inizio, nelle cabine pubbliche del telefono in centro città.

Se c'è una cosa che mi manca è il poter andare a trovare mio padre. Ho due linee di febbre che non mi permettono di varcare la soglia di una casa dove c'è una persona, babbo, con alcune complicanze di salute pregresse. Ma io sto bene, è solo precauzione.

Non so se tra un mese ci guarderemo all'indietro facendo un sospiro di sollievo per quanto fatto o disperandoci fortemente per gli effetti che queste misure avranno sul Paese e sull'economia. Potrebbero esserci entrambi i sentimenti.
Io mi auguro che questo virus non intacchi neanche lievemente i miei affetti e mi auguro che qualcosa ci insegni a livello umano, non solo tecnologico.
Parlo del valore del tempo che ci è stato ridato a nostra disposizione perché siamo stati costretti a fermare una routine infernale e forse dopata, dei rapporti fisici con le persone che ci sono state tolte nelle nostre relazioni sociali vere e non virtuali, dell'importanza del bene salute e di avere attorno a noi una società che ti salva e ti cura senza dover spendere un euro, del fatto che alla fine siamo tutti fragili e interconnessi.
La lezione vera, alla fine di tutto, è che il "non tocca a me" è un falso alibi che non ci possiamo più permettere neanche solo con il pensiero.

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