17 luglio 2019

I ventilatori a terra, le luci di Natale e un ragazzo di nome D. Il mio fumoso salto nel passato

D. ha 23 anni. E' stato in carcere per rapina a mano armata. D. è un rapper. D. ha la pelle nera e i denti bianchissimi. D. usa il passato remoto quando parla nella nostra lingua. D. guarda dritto negli occhi. D. ha deciso che vuole cambiare vita e ha trovato come farlo: grazie a Spotify.
La mia serata inizia senza D. nel ricordo dei bei tempi andati in una città dove bazzico sempre meno. Il mio Traguardo nel passato è un vino geograficamente vicino alla mio nuovo baricentro domestico. Un Soave, un cestino di patatine poco croccanti e l'attesa di un vecchio collega.
Io so perché gli ho detto di sì. Perché ho accettato questa serata che nulla aveva del rendez vous ma è fin da subito stato evidente che era semplicemente lavoro. E' che quello del giornalista non è mai un lavoro, perfino quando lo fai fino alle undici passate di sera, esso ti scivola via dall'orologio impregnandoti l'anima che neanche te ne accorgi. Almeno finché non chiudi la porta e inizi a pensare e scrivere tutto quello che hai ascoltato. A trovare un ordine semantico e sintattico per sciorinare il pensiero.
Quando sono entrata ho visto solo i ventilatori a terra e le luci di Natale. Il producer sembrava un portoricano di sobborgo. D. un ragazzo come tanti: magro, ben vestito, pieno di cose dentro, nero.
La sua storia mi travolge e resto praticamente attonita. Credo a tutto quello che ci dice tranne al fatto che ora ha trovato un lavoro raccomandabile.
D. ha spacciato da quando aveva 13 anni. Quando ci racconta che il suo guadagno minimo era di mille euro a settimana, io balzo dalla sedia e penso immediatamente a quanta fatica ho fatto, nella mia gavetta giornalistica, ad arrivare a 1.500 al mese.
D. voleva essere ricco ma si vergognava di quei soldi perché la famiglia non sapeva. Il frigo vuoto, l'emarginazione, la rabbia, "io non sono come loro", le sue parole sono piene di cliché, eppure messe il sul tavolo, dette senza retorica a muso duro, sembrano diverse. Sembrano più vere.
Alla rapina D. ci arriva perché si sente invincibile e vuole guadagnare sempre di più. Bottino 60 mila. Ne trova 15 mila, li nasconde sotto la giacca. Il suo palo è fuggito e lui decide di prendere il bus per tornare a casa. Ma l'allarme è stato lanciato, i carabinieri lo vedono, lui corre, loro sparano in alto poi lo puntano.
Per la prima volta D. pensa alla sua vita: ma non dice di aver avuto paura. La sua risposta è: "non valeva la pena morire per 15 mila euro".
La frase mi si stampa addosso. Non ha emozione alcuna. E' evidenza. Matematica. Ragione.
Con le manette addosso D. fa il suo esame di coscienza. Decide che quando esce non torna nel giro. Stento a crederci quando mi dice che dentro in carcere ci è rimasto solo 7 giorni. Sette giorni con persone "buone". Questo l'aggettivo di D. per i suoi compagni di cella. Molti sono suoi amici.
Poi un anno ai domiciliari con gli orari. L'incontro col 26 enne producer che non ho ben capito se è bravo o no ma almeno con D. ci ha voluto provare senza rapinargli le tasche.
Ora il primo album di D. è su Spotify. Tornando in auto sento la prima canzone. Capisco poco il testo in inglese, non adoro il genere. Ma D. mi si è cucito addosso fino al cuscino, è ritornato il giorno dopo e vive ancora adesso in queste righe.
Forse quella di D. è una storia che mai avrei scritto quando ero giornalista. Chissà se guadagna più un ragazzo così con qualche bit rappato su Spotify o un neo autore che pubblica un ebook per kindle. La tecnologia ha reso tutto più semplice. D. non farà live, concerti. Per farsi conoscere non ne ha bisogno, ma quanto durerà D. nella memoria delle persone? Per la sua musica, ça va sans dire, non per la sua storia che oggi, per queste poche righe, vale molto di più.

Nessun commento: