Il 6 aprile sarà un mese esatto che sono fisicamente chiusa
in casa.
Ricordo ancora cos’è successo il 6 marzo scorso: dov’ero, le
ultime cose che ho fatto prima di chiudere dietro di me la porta, indossare il
pigiama e serrare il chiavistello senza minimamente pensare che l’indomani non
sarei più uscita. Non quotidianamente, almeno: non con la libertà di prima.
Oggi per la prima volta da quel giorno, andando con la
memoria a recuperare ogni frammento d’immagine del “prima”, ho iniziato seriamente
a pensare al “dopo”. A quando tornerò alla mia vita. E così, ho ardentemente
sperato, per più di qualche secondo, di non tornarci: non voglio tornare
esattamente a com’era prima. Non voglio tornare puntualmente a com’ero io
prima.
Per non riavvolgere di scatto il nastro all’indietro senza
alcuno strappo, ho pensato innanzitutto che non dovevo dimenticarmi neanche per
un istante delle emozioni provate in questi giorni di clausura. Di quello che
ho pensato, provato, vissuto pienamente e poi scritto.
Sbaglia chi pensa che fermarsi e non poter uscire di casa
sia sinonimo di non vita. Se si intende vita quella vissuta fino al 6 marzo, di
certo siamo in una dimensione opposta. Ma c’è un sapore nuovo in questa diversa
e insperata dimensione. Io l’ho saputo apprezzare, nonostante tutto, e non
voglio dimenticare cosa ho provato e pensato in questi giorni. Per questo lo
scrivo e lo metto nero su bianco. Perché io sono anche stata bene, lontana da
molte cose. Sono stata bene nella ricerca e recupero del mio benessere e di ciò
che mi fa stare in pace con me sé stessa. E’ stato ed è tutt’ora un percorso; e
non è ancora finito.
La prima settimana è stata quasi piacevole nel suo
intontimento e anche, lo ammetto, nella non globale e verticale comprensione di
ciò che stava realmente accadendo. Nell’inconsapevolezza piena della gravità
della situazione, mi sono riappropriata della mia vita e ho rallentato. Mentre
il virus fuori toglieva l’aria ai polmoni a sempre più persone, io ho iniziato
nuovamente a respirare. Era ancora consentito uscire per passeggiate e jogging
e ho riscoperto i broli dietro la collina, la quiete della sera, l’odore
dell’erba. L’aria già iniziava a profumare di primavera e mi sono goduta la
nuova routine, il mio compagno, la nostra vita.
Ho così riscoperto il valore del TEMPO. E guardandomi alle
spalle, ripensando alla sveglia alle 6.10, agli oltre 200 chilometri al giorno
in auto lungo l’A4 stritolata dai camion in doppia corsia, o di corsa giù dal
treno per rincorrere e prendere al volo la metro affollata, mi sono rivista con
la faccia del bianconiglio di Alice con suo continuo tirar fuori l’orologio dal
panciotto: allegoria (anche nella favola) dell’uomo divorato dal suo rapporto
con un tempo (che non ha), in ritardo perenne, nel suo affaccendarsi privo di
senso.
La seconda settimana è stata una lenta presa di coscienza. I
numeri fuori stavano impazzendo, non mi tornavano i conti, ho iniziato a
scandagliare tutti i giornali esteri. Ho iniziato seriamente a preoccuparmi.
Ho cominciato ad avere PAURA per i miei cari e a sentirmi
più sola, anche nel lavoro. Mancava quella parola scambiata in ascensore, nei
corridoi, la pausa caffè con il gossip e la battuta che è comunque una
circolazione sana di informazioni. E’ stata la settimana del mio impasse, e mi
sono ritirata in SILENZIO. Dovevo pensare, dovevo capire cosa stava realmente
accadendo fuori dalla porta a uno, due e migliaia di chilometri dal mio
chiostro. Ho iniziato a scrivere.
La terza è stata la settimana dello spegnimento dei video in
tutte le call e del pigiama. E’ stata la settimana della definitiva presa di
coscienza che non sarebbe passato tutto in fretta. Difatti non ero in smart
working ma in clausura forzata a casa. Non sono più uscita: ho passato sette lunghi
giorni chiusa nell’appartamento, prendendo una boccata d’aria ogni tanto in
terrazza. La scrittura mi ha aiutato a sfogare. Ho letto e pensato tanto. Ho pianto
nel ricordo di chi mi manca. Ero meno ansiosa (talvolta sono quasi
ipocondriaca) ma tristemente realista.
Mentre scrivo sono a metà della quarta settimana, in quella
che considero la settimana della nuova NORMALITA’ dove sono venute meno le cose
eccezionali che ci si era inventati all’inizio: la gente non canta più a
squarciagola dai balconi, non applaude più i medici in un gesto di comunità tra
il liberatorio e la vicinanza a chi davvero sta dando tutto.
Così mi sono accorta che l’uomo può abituarsi a tutto. E’
solo questione di tempo.
La mattina mi sveglio quasi sempre alla stessa ora, leggo la
rassegna, i giornali, faccio il caffè mi siedo e faccio colazione per almeno 15
minuti. Poi mi preparo, mi trucco (poco) mi vesto comoda.
Questa nuova vita TRANQUILLA,
nonostante i buoni ritmi di lavoro e pure i problemi della gestione di alcune
faccende da remoto, è diventata normale e ci ho stranamente trovato un senso.
Ma ho iniziato a inquietarmi al pensiero di quando finirà e ho avuto una nuova gran
paura: mi sentirò nuovamente sicura ammassata in un vagone della metro a
Milano? Mi sentirò sana al primo sternuto indotto da un polline? Avrò la forza,
girando come una trottola a contatto con chiunque per lavoro, di abbracciare
mio padre con i suoi stent al cuore? Guardando i cinesi che girano con la
mascherina, le ore d’aria contate al giorno e monitorate con lo smartphone, gli
ingressi centellinati vedo uno squarcio di futuro prossimo ma non trovo ancora
grandi risposte anche sul mio futuro e così mi attorciglio nei pensieri di cosa
vorrei salvare di tutto quello che ho provato in questi 31 giorni.
Servirà un
grande CUORE per non dimenticare. Neanche chi siamo stati mentre eravamo
chiusi, soli e inermi con noi stessi.
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