8 aprile 2020

BIANCONIGLIO O CAPPELLAIO MATTO?


In questi giorni in cui sto iniziando a pensare al “dopo” e al ritorno alla vita “normale” (sempre che la normalità faccia davvero parte di ciò che si era “prima”) mi sento stretta tra due binari paralleli, a metà tra due vite completamente sfasate. Ho pensato a lungo a come declinare concretamente questa nuova sensazione e, per trovarvi un senso, ho ripreso in mano una favola che quando ero piccina non ho mai apprezzato veramente: perché non l’ho mai guardata davvero fino in fondo. Parlo di Alice nel Paese delle Meraviglie: un romanzo, prima che un cartoon di cui tutti abbiamo scolpito in testa le immagini, dove Lewis Carroll ha sfruttato tutta una serie di metafore, similitudini e allegorie per raccontare un percorso di crescita interiore.

Così ho ragionato: e se anche noi, come Alice, dopo essere caduti all’improvviso nel buco nero della Pandemia, avessimo intrapreso un viaggio?
E se questo viaggio fosse, com’è successo a quella biondina dagli occhi vispi e la lingua lunga, una grande occasione per imparare a conoscere meglio noi stessi e le emozioni dell’animo umano?

Partiamo dalla caduta, quella da cui ha inizio il viaggio assurdo di Alice e forse anche il nostro. Il mio di certo è partito il 6 marzo scorso, quando ho chiuso dietro di me la porta e ho indossato il pigiama a fine giornata, non ancora consapevole che non sarei più uscita. Non con la libertà di prima. Intrufolandosi in quel “buco” nell’albero, Alice insegue la sua curiosità ma soprattutto un arruffato e frettoloso bianconiglio con l’orologio che gli esce dal panciotto. Anche noi forse siamo entrati in una tana buia e nascosta. Il perché l’abbiamo fatto non ha nulla a che fare con la favola, perché è chiaro ed evidente che non è stata una nostra scelta; eppure lo strapiombo in cui siamo caduti è altrettanto profondo: è stata una caduta lenta nel vuoto, fino al fondo della cavità.

Ma cosa trova in fondo al buco, Alice? Rileggendo il libro ho fatto un’insolita e dimenticata scoperta. Alice trova un appartamento ben arredato, che è guarda caso la situazione in cui è finito ognuno di noi dopo un decreto che ha vietato ogni possibilità di uscita se non per giustificato motivo.
Siamo rimasti intrappolati in un cunicolo, un libro, un sogno, chiamatelo come volete ma è così reale da sconquassarci ogni giorno le emozioni. In questo nuovo scenario ci riappare d’incanto la figura del bianconiglio che è così lapallissiana: è l’allegoria dell’uomo ansioso, divorato dal suo rapporto con un tempo (che non ha), in ritardo perenne nel suo affaccendarsi privo di senso. Non vi ricorda qualcuno?
Incredibile a pensarci ma l’unica figura del romanzo antitetica al coniglio bianco, nel suo rapporto con il tempo, è un uomo il cui nome inneggia alla pazzia: il Cappellaio matto. E’ l’unica figura del libro caratterizzata da un’allegra monotonia legata alla condivisione con pochi amici della stessa routine tutto il giorno, ogni giorno: per lui e per chi lo circonda sono sempre le sei del pomeriggio e l’ora del tè.
Tempo, routine, abitudine. Ma non è il solo rimando.
In tutta la storia, nelle sue vicende, Alice mangia biscotti che la fanno rimpicciolire, fette di torta che la rendono gigante. Cambiare dimensione diventa l’unica via per proseguire il suo viaggio. Anche noi abbiamo dovuto cambiare dimensione e forma, non solo estetica. Siamo diventati piccoli e grandi (allegoria degli alti e bassi della vita) ci siamo arrabbiati, scoraggiati, ritrovati soli e abbiamo (forse) anche pianto. Di certo, abbiamo iniziato una strana maratona senza sapere dove andare e senza esseri umani intorno. E in questa dualità tra avventura e abitudine, stiamo imparando ad accettare, come Alice, debolezze e stranezze. Ma veniamo al dunque che non voglio annoiarvi: il risveglio di Alice è provocato da un evento traumatico: la Regina di cuori che vuole tagliarle la testa.

Anche noi, temo, ci risveglieremo traumaticamente.
Perché è certo: prima o poi ci sveglieremo.
La storia sarà finita e forse qualcuno, come Alice, avrà la sensazione di essersi addormentato per un po’ e di aver sognato un mondo strano. Ma c’è un ultimo particolare degno di nota: Alice, ancora intorpidita, ha il coraggio di raccontare la sua storia alla sorella.
Può essere un gesto liberatorio o un monito a non dimenticare. Dire e scrivere cosa abbiamo vissuto ci aiuterà, forse, a non dimenticare chi siamo stati, cosa abbiamo fatto, sentito e provato dopo la nostra caduta. Qualcuno potrebbe stupirsi e arrivare a credere che in quel mondo lontano da tutto, fatto di personaggi e voci insolite, ci sia un senso.
Un nuovo significato da dare alla nostra vita, di ritorno alla superficie.

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